Migranti a 13 anni


Save the Children avverte: il numero di minori che attraversano il Mediterraneo da soli per giungere in Italia continua a salire. Un viaggio sconvolgente. Ma dopo il loro arrivo cosa accade? Ecco la storia di 20 piccoli Ulisse
Di Ilaria Lonigro
Mentre i genitori a casa non chiudevano occhio e pregavano che tutto andasse bene, loro si sono imbarcati su una carretta nel nero del Mediterraneo di notte. Per alcuni era una novità: non avevano mai visto il mare. Da Alessandria d’Egitto sono partiti verso la Sicilia. Firas, 12 anni, e Mohammad, 14. Labib, 15. Ala, 16. Ce l’hanno fatta, dopo due settimane di onde alte, poco pane e acqua ancora meno. Per il Ministero di Giustizia sono i minori stranieri non accompagnati. In qualsiasi altra lingua, si chiamano miracolati. E sono sempre di più, lo dicono i dati di Save the Children: 460 i minori sbarcati dall’inizio del 2013 a Lampedusa, di cui 411 non accompagnati. Tre volte tanti rispetto allo stesso periodo del 2012. Ma dopo il loro arrivo cosa accade? Siamo andati a scoprire la storia di 20 di loro, un gruppo davvero speciale.

È il dicembre 2011 quando i nostri 20 Ulisse, lasciata la Sicilia, arrivano a Milano in treno. Chiedono aiuto. Quindici di loro sono accolti alla Casa della Carità. Sono vivi, ma sconvolti. Serve qualcosa che li aiuti a rielaborare il viaggio. Devono poter dire cos’è per loro il mare e liberarsi dall’incubo. Così, in collaborazione con il Comune di Milano e Casa Elena, parte un progetto di arteterapia. Si chiama Shay, parola araba che significa “tè”: a ogni incontro, i ragazzi lo preparano e raccontano un’usanza di accoglienza nel loro Paese. Poi dipingono. Con le mani, le spatole, i pennelli, con pastelli, acrilico e spugne. Shay dura 4 mesi, durante i quali imparano le tecniche sotto la guida dell’artista terapista Erika L’Altrella, 30 anni, e della coordinatrice Serena Pagani, 36. Con l’aiuto dei colori e dei gesti, i ragazzi iniziano a farsi capire e a raccontarsi: se alcuni hanno un’alta istruzione, infatti, altri parlano solo un dialetto, incomprensibile anche al mediatore culturale.

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Sono arrivati a Milano perché è la città che sognavano. M. non voleva zappare i campi ad Asiut, basso Egitto, come il padre e il nonno prima di lui. I. ha lasciato il lavoro in cantiere a Monofiya, a nord del Cairo, affascinato dai racconti di un ragazzo del suo paese. “Quando tornava a Monofiya vestiva elegante, guidava una bella macchina e raccontava un gran bene della sua vita in Italia” racconta. Ma era una copertura per coprire il fallimento. “Quando ho incontrato quel ragazzo a Milano” continua I., “ho scoperto che faceva una brutta vita, che lavorava poche ore in un’impresa di pulizie e che la macchina che guidava in Egitto l’aveva affittata, non era sua, non se la poteva permettere. Gli ho detto: sei proprio un co…”. Ora che è in Italia I. vuole trovare un lavoro, risparmiare, avere due figli: “Un maschio e una femmina”.
“Abbiamo dovuto lavorare molto sulle loro attese tradite, sui sogni infranti. Ma è importante puntare su tutto ciò che di vitale c’è. E loro hanno una grande energia, speranza. E tanta fiducia” ammette Serena Pagani, coordinatrice del progetto di arteterapia. Che ai ragazzi ha chiesto cosa significasse per loro il mare. “Le onde erano troppo alte. Ho capito che potevo morire, ma a quel punto non aveva neanche più importanza” ha raccontato Baha. “Un ragazzo scherzava, ha detto che ora preferisce la piscina” ricorda Serena. L’hanno colpita le parole di un altro, che ha rivelato: “Certo che il viaggio è stato difficile. Ma per me il mare sono i delfini che seguivano la nostra barca nel viaggio verso l’Italia. Era la prima volta che li vedevo”.
La meraviglia vince sull’orrore. Così sulle loro tele compaiono i pesci, le stelle, le luci notturne di una costa avvistata. E i simboli religiosi, tanti. Le moschee, perché Ibrahim e Mohamed K., così come Sayed, sono musulmani. E i crocifissi, le chiese: Bishoy, Girgise e Yousseff sono cristiani copti. Sulle tele 2 metri per 4, che hanno appassionato anche il gallerista Jean Blanchaert, hanno dipinto tutti insieme: la pittura in condivisione serve a trovare un proprio spazio e a lasciarne anche un po’ agli altri. E poi ci sono gli autoritratti fatti senza specchio, per capire chi si è veramente. I colori sono sgargianti, come a urlare che l’esistenza è meravigliosa, comunque. Lo dicono le parole scritte su un quadro in arabo e italiano col blu: “Non c’è stop su questa strada della felicità”.
Fonte: DAttualità, La Repubblica
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