Così salviamo dall'orrore i baby scafisti

Mohammed, 14 anni, piange in continuazione, vuole la mamma. Non è un migrante ma un piccolo scafista, «vittima anche lui di gruppi criminali sempre più organizzati e crudeli».
Così lo descrive Elvira Iovino, operatrice del Centro Astalli di Catania. Dall’inizio dell’anno i volontari dell’organizzazione dei Gesuiti hanno seguito nell’istituto penale minorile Bicocca una decina di questi giovani "traghettatori", tra i 14 e i 17 anni, tutti egiziani, famiglie poverissime di pescatori, con dimestichezza del mare. Un aiuto che funziona, visto che ora quasi tutti sono stati trasferiti in comunità dal giudice di sorveglianza, perché si sono comportati bene e hanno collaborato, per quel poco che sanno. «Sono, infatti, l’ultima ruota del carro, ma preziosissimi per i capi dell’organizzazione che gestisce questo traffico, perché coi minorenni si rischia molto di meno, come con la droga». Inoltre praticamente non costano nulla, perché si approfitta del loro desiderio di arrivare in Italia.



«Normalmente il passaggio sui barconi costa moltissimo, per loro è gratis. E qualche volta vengono dati anche 200 euro al padre. Ma non è questo a spingerli. Per loro la Sicilia è l’Eldorado, in fondo anche loro sono migranti verso una "terra promessa". Davvero poverissimi. Gli abbiamo dovuto portare in carcere perfino le mutande...».

L’organizzazione dei trafficanti di uomini non chiede molto a questi giovani. «Sono collaboratori degli scafisti adulti. A loro tocca guidare i gommoni o le piccole barche, imbarcazioni sgangherate sulle quali vengono stipati i migranti scesi dalla "nave madre" quando si entra nelle acque territoriali italiane. Gli adulti restano al sicuro sulla nave mentre loro, quasi tutti ormai minorenni, puntano verso terra. 

Sono bravi perché lo hanno imparato in famiglia. Ma all’oscuro di quello che vanno davvero a fare. Non sanno che porteranno dei disperati, senza cibo e acqua, stipati in spazi ristrettissimi. Non si rendono conto dell’enorme portata di quello che fanno fin quando non ci sono in mezzo, ma allora è tardi». Ma alla fine se, come accade sempre più spesso, muore qualcuno, anche loro sono accusati di concorso in omicidio e in strage, soprattutto dopo la recenti decisioni più dure della magistratura sul traffico di essere umani, che prima era considerato solo favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

«Ragazzini poco scolarizzati ma che ci dicono di far sapere quello che succede davvero per evitare che altri ci caschino». Raccontano tutto, sia agli operatori del Centro Astalli che ai magistrati dei minorenni. «Collaborano ma sanno molto poco dell’organizzazione. Solo i posti di partenza, in Egitto al confine con la Libia. I nomi che riferiscono sono poco più che manovalanza, mentre i capi non li conoscono». Molto di più dicono su quello che hanno visto durante il viaggio, soprattutto a bordo della "navi madre". 

«Sono racconti da film dell’orrore. Violenze, stupri, bambini gettati in mare. Acqua sporcata apposta di gasolio o benzina per farne bere poca. Vedono donne partorire ma non le possono aiutare». Ma non si ribellano? «Una volta che sono in gioco lo accettano fino in fondo. Non possono neanche fiatare. Capiscono che rischiano la vita, di essere entrati in un circuito di morte. Pensano solo di arrivare in Sicilia prima possibile».

Così guidano velocemente quei gommoni sgangherati, «stipati all’inverosimile, tutti immobili perché altrimenti si ribaltano. C’è promiscuità estrema, ci si fa i bisogni addosso». Questo vedono ma devono andare avanti, velocemente, sempre più velocemente. Però sono davvero ragazzini, e «quando arrivano sono distrutti psicologicamente. Piangono proprio come Mohammed. Sono davvero molto toccati. 

Anche perché vengono da famiglie semplici, non hanno dimestichezza con questa efferatezza, come invece i nostri giovani mafiosi che trovano in carcere». Ed è l’altro problema che gli operatori del Centro Astalli e dell’istituto minorile devono affrontare. «Garantiamo un supporto psicologico soprattutto per prendere atto di quello che hanno fatto e superare il trauma. Poi svolgiamo attività di integrazione coi detenuti italiani, ragazzi dei quartieri difficili di Catania, famiglie mafiose. Insegniamo l’italiano per essere in condizione di entrare nel trattamento e nell’inserimento lavorativo».

Un percorso che per una decina di loro ora prosegue in comunità dove lavorano e imparano un mestiere (in istituto ne è rimasto uno solo ma sicuramente non per molto). Gli si è data fiducia. «Ma loro restano con quel durissimo ricordo e ci ripetono di farlo sapere a chi è rimasto. Se si sparge la notizia, dicono, altri come loro non accetteranno». Ma i trafficanti hanno già pronta la contromossa. «Convinceranno gli stessi migranti a guidare i gommoni. È già successo con alcuni tunisini. Non per soldi. Solo con le minacce. L’affare della tratta continuerà finché non sarà istituito un canale umanitario», è l’appello di Elvira.Avvenire.it
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