13° post. Ancona, Italia. Ecco l’”Europa” sognata da Mussa Khan. Anche qui, però, ad accogliere imuhajirin reti metalliche e procedure che rendono la richiesta di asilo una prospettiva sfuggente e lontana
La Olympic Champion punta a nord-ovest, lasciando sulla sua rotta una lunga scia di schiuma gorgogliante. I passeggeri sono in fila per la colazione nella sala ristorante mentre, basse all’orizzonte, macchie tremolanti rivelano i primi tratti della costa italiana.
Quanti migranti ci sono a bordo? Quanti muhajirin si nascondono nei camion stipati nella nave?Osservo la fila afferrare svogliatamente cibo dal self service. A pochi metri da noi, tre livelli più in basso, decine di persone potrebbero nascondersi in spazi angusti, bloccati da ore senza cibo, senza acqua, senza bagno.
La domanda che mi ossessiona è però un’altra: che succede a Mussa Khan? Che responsabilità ho in quanto accaduto ieri notte sul molo? La risposta arriverà solo se e quando Mussa potrà riaccendere il telefono: da ieri notte, dopo l’arresto, è rimasto muto.
Uno degli uomini che poche ore fa ha scaraventato me e Mussa fuori dalla nave è davanti ai miei occhi. Serve caffè e pastarelle. Il personale di queste navi è polivalente: all’imbarco agguerriti cacciatori di migranti, in navigazione angelici barman. Ci guardiamo in cagnesco. “Frapa, ef charisto. ” La frase in greco lo addolcisce. “Perché usate metodi violenti con i viaggiatori irregolari?” Segue un lungo sfogo: “Da qualche anno il mio lavoro non è più lo stesso. Prima ero fiero di appartenere a una compagnia di navigazione importante, conosciuta in tutto il Mediterraneo. Oggi passo la maggior parte del tempo ad inseguire ragazzini disperati che cercano di entrare in nave come topi. Anche adesso”, aggiunge, “i colleghi nella stiva stanno controllando i camion a vista, per evitare che qualcuno di loro possa salire quassù e confondersi tra i passeggeri.”
Il paragone con i topi è una fitta allo stomaco. “E che fate quando ne catturate qualcuno?” Scrolla le spalle. “Li mettiamo in un ambiente separato. Gli diamo acqua e cibo, ma onestamente è difficile sopportarli: sono violenti, sporchi, nervosi.” Sporgendosi oltre il bancone mi confida: “noi non vorremmo ricorrere a certi metodi, sono loro che ci costringono, capisci?” Pago il caffè e vado fuori. Stringo gli occhi, lasciando che le forti raffiche di vento umido mi accarezzino il volto.
So bene cosa accade ai ragazzi che finiscono nelle mani dei marinai. A Patrasso e Igoumenitsa ho visto i lividi, le escoriazioni e le cicatrici incise sulla pelle. A bordo nave non esistono corpi di garanzia, né autorità esterne: la legge è rappresentata dal capitano, dal quale emana tutta l’autorità.
Nei meandri metallici delle stive non ci sono testimoni: i passeggeri sono tenuti a trascorrere l’intero viaggio nei settori superiori. Solo i migranti possono raccontare gli inseguimenti, le fughe e i pestaggi che avvengono durante la navigazione. Ai piani alti, tra sale giochi, piscine, deck bar e sale da tè, gruppi musicali allietano le ore di navigazione dei passeggeri.
Spesso i muhajirin vengono scoperti quando la nave è già a destinazione, individuati dalla polizia italiana. La nave sulla quale hanno viaggiato è la stessa che dovrà riportarli indietro, secondo quanto prevede il diritto internazionale. “All’andata avevo passato cinquanta ore rannicchiato sui semiassi. Non sapevo di essere diretto a Venezia”. Ieri pomeriggio, sulla spiaggia di Igoumenitsa, Abdal, adolescente curdo, ricordava così l’esperienza vissuta due settimane prima. “Appena entrato in porto, sono stato individuato dai cani della polizia. Mentre i marinai mi riportavano in nave, ho capito che stavamo scendendo troppo in basso. Era la sala motori. Mi hanno rinchiuso lì per altre cinquanta ore, insieme ad un harrag marocchino. Sbarcati in Grecia, ci siamo resi conto di essere diventati completamente sordi.” C’è voluta una settimana perché Abdal tornasse a sentire. Era al suo quarto tentativo fallito.
Il Monte Conero è la cornice verde del principale porto adriatico dell’Italia centrale. Incendiata dal sole a picco, Ancona assiste all’ingresso del mastodonte d’acciaio tra i suoi moli. I passeggeri della Olympic Champion si accalcano impazientemente a ridosso dell’uscita, creando una fila disordinata. Sfinito dall’ennesima notte insonne, mi lascio guidare dal flusso umano fino a quando, inaspettatamente, incrocio il mio sguardo con quello di Jibril. Resto basito. Il ragazzo curdo, conosciuto ventiquattro ore prima tra i muhajirin di Igoumenitsa, cammina al fianco di una coetanea greca. Superata la passerella d’acciaio si fermano sulla banchina. Non ci sono controlli. La ragazza fa un cenno ad una delle auto che provengono dalla stiva. Montano sul sedile posteriore. Jibril ha il tempo di rivolgermi un ultimo sguardo di congedo. Non so come ci sia riuscito, ma ce l’ha fatta. E’ in “Europa”.
All’esterno del porto un anziano signore beve solitario una birra all’ombra del portico di un bar. Mi siedo anch’io. L’aria è rovente, la gola arsa e l’ombra invitante. L’uomo guarda assorto la lenta processione di camion che escono dal molo. “Ma è normale che non ci siano agenti a controllare gli autotreni?”, chiedo. Con un gesto appena accennato l’anziano chiama la cameriera e chiede un altro bicchiere. “Oggi è domenica.” Lo riempie, porgendomelo. “Ogni domenica è così: i pochi poliziotti presenti se ne stanno rintanati in ufficio, a godere dell’aria condizionata. Ma di solito”, continua, “i controlli sono scrupolosi.” E poi aggiunge, con aria scettica: “A causa delle questioni di sicurezza, in pochi anni il porto di Ancona è cambiato completamente, e con esso l’intera città.”
Per quarant’anni l’uomo ha lavorato come operaio nei cantieri navali di Ancona. Una vita trascorsa sui moli del porto. “Purtroppo da qualche tempo hanno alzato questa maledetta recinzione.” Benché non sormontata dai rotoli di filo spinato che abbondano in Grecia, un’alta barriera in ferro si erge sul lato opposto della strada, interrompendo la continuità del porto e bloccando completamente l’accesso al mare. “Questa zona della città era piena di vita: ormai è un vicolo cieco.”E conclude: “Ancona era una città di mare. Oggi non lo è più.”
La recinzione giace sotto il sole, immobile. Pur avendola notata altre volte, prima di questo viaggio insieme ai muhajirin non avevo mai capito la sua vera funzione. Una barriera per migranti irregolari nel pieno centro storico di una città italiana. Una costatazione amara. Fino a che punto, d’ora in poi, sarò costretto a reinterpretare gli elementi del territorio in cui vivo? Quanto si sono spinte avanti, dietro la scusa della sicurezza, le politiche di chiusura dei governanti? Offro io la seconda birra, ma con una preghiera: “cambiamo argomento”.
Lunedì. L’ufficio del Consiglio italiano per i rifugiati è al secondo piano di una palazzina vicino al porto. Gli operatori sono molto indaffarati. “Tra poco c’è uno sbarco, e almeno uno di noi deve presenziare ai controlli di polizia, sul molo.” Ancona è l’unico porto adriatico in cui gli operatori del CIR hanno il permesso di accedere all’area portuale durante la manovra di sbarco, ed eventualmente di affiancare i poliziotti durante i controlli a bordo nave. “Il CIR ha la funzione di garantire che le procedure per l’asilo vengano attuate correttamente”. Uno degli avvocati racconta il lavoro quotidiano del consiglio. “Di fronte ad un viaggiatore irregolare, il primo elemento da valutare è l’età e lo stato di salute. In caso di minori, di ammalati e di donne in stato avanzato di gravidanza, le categorie più vulnerabili, mettiamo in atto procedure facilitate.”
Poiché l’età dichiarata dai migranti adolescenti spesso non coincide con quella presunta da parte del poliziotto addetto al controllo, i ragazzi che si dichiarano minori vengono portati in ospedale, dove devono sottoporsi all’esame radiologico del polso. “Il margine di errore, tuttavia, resta enorme”, confessa l’avvocato. “Quel tipo di esame fornisce solo un’indicazione sull’età, ma il margine secondo alcuni esperti è superiore ai tre anni.” Normalmente i poliziotti attribuiscono ai ragazzi l’età più avanzata possibile. Per coloro i quali vengono considerati maggiorenni, la riconsegna al capitano della nave è pressoché inevitabile. “A meno che non facciano esplicitamente richiesta di asilo politico”, aggiunge l’avvocato.
Questa ultima affermazione racchiude in sé l’enorme contraddizione alla base di tutta la procedura. Il poliziotto che individua sulla banchina un migrante irregolare non può, per legge, chiedergli se sia venuto in Italia per ottenere asilo, e quindi protezione da parte dello Stato. Né possono farlo gli operatori del CIR. Il muhajir deve autonomamente dichiararsi richiedente asilo, o spiegare che il motivo per cui è venuto fin qui è la fuga da un conflitto, da una persecuzione o da una minaccia
Me ne vado, nonostante le molte domande che vorrei continuare a porre. Vado via proprio perché temo le risposte: disumane, accademiche, distanti anni luce dal mondo reale in cui vivono i muhajirin. Provo ad immaginare lo stato d’animo di un muhajir che dopo aver speso trenta o quaranta ore nella pancia rovente di un autotreno, affamato e assetato, spaventato dalle divise dei poliziotti e dal rumore dei camion, disorientato dal via vai di gente sul porto e dalla lingua appena comprensibile dell’interlocutore, deve rispondere in fretta alle domande che decideranno il suo destino. Inconsapevole, molto spesso, dell’esistenza un istituto giuridico come l’asilo politico
Molti dei muhajirin afghani disseminati lungo i cinquemila chilometri che da Van portano ad Ancona, hanno conosciuto in vita loro solo la guerra. Non è detto, tuttavia, che attribuiscano direttamente ad essa il motivo della loro disgraziata fuga. Molto spesso, infatti, è la povertà generata dal conflitto ad essere considerata come il motivo ultimo per lasciare il paese. Se interrogato, un migrante afghano potrebbe rispondere che fugge dalla fame, non dal conflitto. Una fuga per motivi economici, però, non è considerata dalle autorità come un elemento sufficiente a garantire accesso alle procedura di protezione. La roulette dell’asilo miete vittime innocenti.
Salgo sul treno per Roma. E lì, al campo dei muhajirin afghani della stazione Ostiense che Mussa Khan sarebbe andato se due giorni fa l’Europa non gli avesse voltato le spalle. La stanchezza si impadronisce di me all’istante, come accade da settimane ogni volta che mi rilasso. Prima di cedere al sonno incombente, però, faccio l’ennesimo tentativo: cerco tra le ultime chiamate il numero di Mussa. Invio. Squilla. “Kardash! ” “Mussa! Non sei in prigione?” “Mi hanno rilasciato. Torno ad Atene. Forse ho trovato un modo per venire in Europa, ma ho di nuovo bisogno del tuo aiuto.” Parliamo per un po’, finché me lo permette il credito. Poi, rincuorato, mi lascio cullare dal rollio sordo del treno fino ad addormentarmi.