Due anni. Tanto è passato da quando Yacouba (nome di fantasia) ha attraversato il Mediterraneo a bordo di un gommone per sfuggire a un destino di guerra e miseria. Due anni da quando, ancora adolescente, è finito in un carcere per adulti a Trapani, accusato di essere uno “scafista”. Due anni in cui una vita appena cominciata è stata sospesa in una zona grigia della giustizia italiana, tra errori di identificazione, accuse fragili e il silenzio che spesso avvolge le storie dei minori migranti.
Yacouba sostiene di aver compiuto diciotto anni da poco. Lo Stato italiano, invece, lo ha identificato come maggiorenne già al momento del suo arresto, attribuendogli una data di nascita "standardizzata": 1° gennaio 2005. Una convenzione burocratica che, nel suo caso, ha avuto effetti devastanti. Se fosse stato riconosciuto minorenne, oggi Yacouba sarebbe in una comunità protetta per minori, non dietro le sbarre di un carcere per adulti.
Questa discrepanza, frutto di un sistema di identificazione che si affida ancora a radiografie ossee notoriamente imprecise, ha segnato l’intero processo. E ha trasformato una vittima del traffico di esseri umani in un presunto criminale.
Una traversata, un’accusa
Nel febbraio 2023, dopo anni di peregrinazioni tra Guinea, Mali, Senegal e infine Tunisia, Yacouba ha cercato di raggiungere l’Italia via mare. Era su un gommone con altre tredici persone. Alcuni dei passeggeri tunisini hanno indicato lui come il “capitano” dell’imbarcazione. La sua colpa? Aver sostituito una candela del motore. Un gesto di sopravvivenza che si è trasformato, secondo l'accusa, in “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.
In aula si è parlato di “vantaggio indiretto”: Yacouba non avrebbe pagato i 5.000 dinari chiesti agli altri migranti. Secondo la procura, questo dettaglio prova il suo ruolo attivo nel trasporto. Secondo chi lo difende, è solo un altro tassello in una lunga catena di equivoci, dove la solidarietà tra migranti viene spesso scambiata per complicità criminale.
La trappola della radiografia
L’identificazione come maggiorenne è avvenuta sulla base di una radiografia del polso, un metodo che l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati considera non affidabile, con margini di errore fino a cinque anni. Mouad ha dichiarato fin da subito di essere minorenne. La sua avvocata, Francesca Frustreri, ha cercato di dimostrarlo presentando documenti provenienti dalla Guinea: prima un certificato sostitutivo basato su testimonianze familiari, poi – solo a processo terminato – il certificato ufficiale, completo di timbro e protocollo. Ma per la giustizia italiana, quel ritardo è costato caro.
Nel frattempo, la detenzione continua. In un carcere, quello di Trapani, che è stato recentemente scosso da indagini per torture e abusi ai danni dei detenuti: undici agenti agli arresti domiciliari, altri trentacinque sotto inchiesta. Un luogo già invivibile per un adulto, figuriamoci per un ragazzo che forse non aveva nemmeno diciassette anni al momento dell’arresto.
“Per favore, aiutatemi”
Dalla cella, Yacoub scrive lettere agli attivisti dell’Arci Porco Rosso di Palermo, che seguono il suo caso. “Sono partito dalla mia terra solo per aiutare mia madre nelle sue sofferenze. Per favore, aiutatemi”, scrive in una delle sue missive. La sua voce è quella di un ragazzo che non ha mai smesso di sperare, nonostante tutto.
La parrocchia di Santa Lucia, a Palermo, si è offerta di ospitarlo in una misura alternativa alla detenzione. Ma anche questa richiesta è stata finora respinta. Ora la palla passa al Tribunale del Riesame, che dovrà esaminare la nuova documentazione e valutare se permettere almeno un cambio di regime detentivo.
Un caso, centinaia di storie
Il dramma di Yacouba non è un’eccezione. L’Arci Porco Rosso di Palermo ha documentato almeno trecento casi simili negli ultimi due anni. Giovani migranti arrestati per presunto “scafismo” sulla base di indizi labili, spesso identificati come adulti senza una vera verifica, trasformati da vittime in imputati. Secondo gli attivisti, è il frutto di una strategia sistemica: trovare dei colpevoli facilmente sacrificabili per mostrare i muscoli sul fronte della lotta all’immigrazione.
Il prezzo, però, lo pagano ragazzi come Yacoub. Persone che fuggono da guerre, povertà e sfruttamento e che si ritrovano inghiottite da un sistema giudiziario incapace di riconoscere la complessità delle loro storie.
L’umanità che manca
Il caso di Yacoub interroga direttamente la coscienza del nostro Paese. Cosa dice di noi una giustizia che sbaglia età e incarcera i minori? Cosa racconta una società che confonde un gesto di sopravvivenza con un crimine? Il confine tra protezione e punizione, quando si parla di migrazione, sembra ogni giorno più sottile.
Eppure, dietro ogni fascicolo processuale, c’è una persona. Un ragazzo che voleva solo vivere.
Leonardo Cavaliere