Fede, igiene e diritti


Cronaca di una visita a Contrada Imbriacola. Parlano i profughi eritrei trattenuti illegalmente nella struttura. A spese loro e nostre.
Lei, la portavoce del gruppo di queste giovani donne africane, quando le chiediamo di cosa sentano più il bisogno, lì rinchiuse, risponde pronta: di pregare. Poi ci spiega: possono farlo anche da “trattenute”, con polizia, esercito e carabinieri che guardano annoiati e intorno grate al posto di crocifissi. Ma preferirebbero andare in chiesa o almeno avere un prete che offici per loro la messa. Dall’altra parte del centro, nel cosiddetto “gabbio” (la gabbia nella gabbia) dove stanno rinchiusi gli uomini, almeno, tra i profughi, c’è un giovanissimo diacono e la preghiera la organizza lui che ha anche una sorella suora.

Siamo a Contrada Imbriacola, il Cpsa di Lampedusa dove, quando arrivo per la visita, sono rinchiusi 231 migranti in fuga dalla Libia e tra loro minori non accompagnati e donne. Parliamo prima con le donne, che si raccolgono un po’ alla volta intorno a noi. Alcune di loro, eritree, hanno disertato dalla leva militare (obbligatoria nel loro paese anche per le ragazze) e per questo rischiano in caso di rimpatrio di essere imprigionate e torturate. Sono tutte fuggite da pericoli di persecuzione, torture o violenze. Sono scappate in Libia. Qui sono state imprigionate e picchiate dai soldati libici. Allora sono fuggite. Incastrate su barche di fortuna, due notti e giorni in mezzo al mare. Pregando di arrivare tutti vivi.
Poi lo sbarco, militari in tuta mimetica, divise di ogni tipo. Fotografie, impronte digitali, una tessera con su scritto il proprio nome da esibire per avere i pasti, un piccolissimo sapone da albergo, una scheda telefonica e le grate. Chiuse in gabbia. Per giorni, settimane. Molte di loro sono rinchiuse da un mese. Senza una ragione e contro le leggi. Di più: contro la Costituzione. Queste persone, donne, uomini, minori, sono “imprigionate” senza che sia stato notificato loro alcun decreto di trattenimento, in assenza di convalida giudiziaria e dunque senza avere mai potuto parlare con un giudice né con un avvocato.
Dovrebbero stare in questo centro (che non a caso si chiama centro di primo soccorso e accoglienza) solo poche ore, al massimo qualche giorno, il tempo di essere identificate e rimesse in sesto dopo il lungo viaggio, e poi inviate verso la collocazione finale: Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (quasi tutti, negli ultimi sbarchi), case-famiglia per i minori non accompagnati, Cie per gli eventuali espellendi. E invece stanno qui settimane, rinchiuse senza diritti ed in barba alla legge. A spese loro e nostre. Loro, in termini di sofferenza, paura, ingiustizie subite. Nostre in termini di denaro e di illegalità. E l’illegalità se la compie uno Stato ha prezzi altissimi, insostenibili per un Paese democratico e per chi lo abita.
La ragazza eritrea ci chiede di parlare con la sindaco di Lampedusa che è entrata con noi nel Centro: vuole chiederle di ringraziare i lampedusani per l’accoglienza. Perché quando i migranti riuscivano a scappare fuori dal centro tramite un buco della rete riparato da poco, gli isolani hanno donato loro cibo e vestiti. Le chiediamo di cos’altro avrebbero bisogno oltre un prete e lei risponde: sapone, assorbenti, ciabatte. Fede e igiene.
E diritti: vogliono sapere perché stanno rinchiuse, perché non possono uscire, perché le hanno separate dai loro mariti e dai loro fratelli sbarcati con loro e se potranno restare in Italia o verranno rispedite verso le violenze ed i pericoli dai quali sono fuggite. Sono le stesse domande che ci fanno gli uomini dall’altra parte della gabbia. Chiedono perché un paese democratico si comporti così. Hanno paura. Chiediamo loro come passino il tempo: parliamo, rispondono. Sono tutti gentili anche tra di loro. Vengono da paesi diversi: Mali, Senegal, Nigeria, Gambia, Ghana, Eritrea. Hanno in comune la sventura di una fuga e l’avventura di un approdo. E la prigionia illegale nella quale si trovano da settimane.
Dividono stanze con dodici brande (ridotte a otto per donne e minori) con lenzuola di carta utilizzate anche come tende tra un letto a castello e l’altro, separati da pochi centimetri, per garantire un minimo di privacy e per tentare di non far filtrare la luce perennemente accesa. Alcuni sulla luce al soffitto hanno attaccato un asciugamano nel vano tentativo di fare buio per la notte.
I minori ancora stanno distesi a letto. Non sanno come far passare il tempo dentro questa prigione per migranti. Dicono che il cibo non basta, che devono e vogliono crescere. Ma hanno paura del loro futuro che ignorano. Solo alla fine, quando li salutiamo, ci regalano un sorriso, spento. La loro detenzione è la più illegale di tutte. I minori non possono essere privati della loro libertà ed i minori non accompagnati devono essere collocati immediatamente in un luogo sicuro e sottoposti a tutela. Nulla di tutto ciò avviene per i minori stranieri che sbarcano a Lampedusa. Che anzi devono anche guardarsi le spalle da un operatore un po’ troppo violento ed iracondo.
Andiamo via dal centro, le ragazze ci scortano fino all’uscita e ci salutano: «Grazie della visita». Abbassiamo gli occhi, vergognose per la pessima “accoglienza” e l’indegna prigionia, che riserviamo loro. Ognuna di noi: Sandra Zampa come parlamentare, Gabriella Guido per la campagna LasciateCientrare, la giornalista Claudia De Lillo, nome in codice Elasti, per i suoi affezionati lettori, dovrà fare tesoro di questa esperienza, perché questa detenzione illegale cessi definitivamente e si trovino nuove, giuste e serie soluzioni per accogliere, come doverosamente imposto da convenzioni internazionali, i profughi in fuga che il mare ci consegna.
Alessandra Ballerini
www.corriereimmigrazione.it
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