Il quotidiano 'Herald Tribune' (versione europea del 'New York Times') dedica la sua prima pagina ai centri di detenzione per migranti nel nostro Paese. Carceri di massima sicurezza, con guardie in tenuta antisommossa e detenuti allo stremo che non hanno mai commesso alcun reato: «Strutture inumane, inefficaci e costose»
"Il Cie alla periferia di Roma, dove gli immigrati illegali possono passare mesi in attesa di essere rimpatriati, non è una prigione. Ma la differenza è solo una questione di semantica". Si apre così l'articolo con cui l'International Herald Tribune apre oggi la sua edizione europea: un durissimo atto d'accusa all'Italia per il modo in cui, negli 11 centri di Identificazione ed Espulsione presenti sul nostro territorio, vengono trattati gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno o asilo politico in attesa di essere espulsi dal nostro paese.
Il pezzo, dal titolo 'L'Italia sotto accusa per la detenzione degli immigrati illegali' ('Italy faulted on detention of illegal immigrants') è firmato dalla della corrispondente Elisabetta Povoledo ed è corredato di immagini del centro romano di Ponte Galeria e di quello di Bari. Si tratta di una lunga requisitoria sul fallimento del sistema dei Cie. Riportando le voci critiche che da più parti, negli ultimi anni, si sono alzate contro la gestione di queste strutture, il quotidiano li descrive come "inumani, inefficaci e costosi", riflesso di una "politica che identifica l'immigrazione con la criminalità, senza tener conto né del beneficio economico dell'emigrazione né della natura multiculturale della società".
A sostegno di queste affermazioni, si descrivono nel dettaglio le condizioni di vita del Cie romano di Ponte Galeria, teatro nel corso degli ultimi anni di varie rivolte degli immigrati reclusi, le cui condizioni di vita al limite della disperazione sono state più volte denunciate dal nostro giornale.
La descrizione che la giornalista dell'Herald Tribune fa del centro di detenzione è, volutamente, a metà tra il campo di concentramento e il carcere di massima sicurezza. Parla infatti di "alte cancellate di metallo che separano le file di basse costruzioni in singole unità che vengono chiuse durante la notte, mentre i cortili in cemento restano illuminati a giorno", mentre alcune guardie indossano "tenute antisommossa". I detenuti, spiega ancora, "possono indossare solo ciabatte o scarpe senza lacci", per non far male a se stessi o agli altri e nella sezione maschile, dopo una rivolta, "gli oggetti appuntiti, tra i quali penne, matite e pettini, sono stati vietati".
Sottolineando come le autorità italiane non smettano di precisare che il sistema di detenzione dei Cie è in linea con le linee guida dell'Unione Europea, l'articolo prosegue citando la denuncia dell' associazione LasciateCiEntrare, che fa campagna per la loro chiusura, secondo la quale "questi sono non-luoghi che non hanno alcun interazione con la società italiana, che è a malapena a conoscenza della loro esistenza", luoghi di sofferenza e "discariche politiche e sociali di cui si accorge a livello nazionale soltanto quando scoppia una rivolta".
Il quotidiano ha raccolto anche i dati di Medici per i Diritti Umani relativi alle pessime condizioni di salute dei detenuti: dagli atti di autolesionismo al massiccio consumo di anti-depressivi. Ma soprattutto sottolinea come, oltre che crudele, il meccanismo dei centri di detenzione ed esplusione sia anche inefficace. Solo la metà dei detenuti, circa 400 persone, sono effettivamente state espulse lo scorso anno, "una porzione ridottissima dei circa 440 mila irregolari che si stima vivano in Italia".
Citando infine un rapporto del ministero degli interni del 2013 che definisce "indispensabili" i centri, l'autrice del reportage dà la parola a chi vi è o vi è stato rinchiuso. Dall'egiziano Karim, la cui storia ad aprile è finita sui media nazionali, a un tunisino di 40 anni, ex muratore, che è finito in un Cie dopo aver scontato un periodo in carcere per spaccio di droga. E che di questa nuova condanna senza un termine stabilito dice: "La galera era meglio che stare qui".
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