6° post. La via della Seta del terzo millennio trasporta carne umana. Il suo terminale in terra turca è Izmir: qui arrivano i muhajirinche, come Mussa Khan, tentano la via dell’Egeo, per finire troppo spesso in fondo al mare. Per cercarlo, bisogna entrare a Basmane, porta d’Europa degli ultimi
La sagoma informe striscia silenziosamente nell’angolo morto del mio campo visivo, padrona della semioscurità. Tutt’intorno è Basmane, quartiere dei dannati, porta d’Europa degli ultimi.
Prima ancora che riesca a voltarmi, avendone ormai percepito la presenza, l’uomo si palesa in un saluto plateale, quasi grottesco. La mano è già tesa: “Amico! Cercavi me?”.
Izmir, antica Smirne, da 2500 anni capolinea del reticolato polveroso di strade meglio noto come Via della Seta. Piazza di contrattazione più florida del Mediterraneo, da qui le mercanzie provenienti da Cina, India o Arabia prendevano finalmente il mare, dirette ai porti europei.
La storia non conosce ironie. In questi anni è proprio a Basmane, nel centro storico della città, che i migranti, la merce più preziosa del terzo millennio, hanno interrotto il loro viaggio di terra per affrontare i flutti dell’Egeo.
Basse sull’orizzonte, le isole greche da qui si vedono a occhio nudo. L’insperata sponda europea, dopo mesi o anni di viaggio, è canto suadente di sirene fatali: in questo tratto di mare le acque hanno inghiottito migliaia di muhajirin. Oharragas, come qualcuno li chiama qui, gli “uomini che bruciano le frontiere”.
Da Basmane si tessono reti di traffici che arrivano fino al Corno d’Africa, al Pakistan, al Senegal. La via della Seta del terzo millennio trasporta carne umana.
E’ lunedi. Al mattino, arrivato in città dopo l’ennesima notte in autobus, apprendo subito la brutta notizia in un internet point: Mussa Khan è diretto a nord, verso Istanbul ed oltre, un luogo imprecisato lungo la frontiera terrestre tra Turchia e Grecia.
“Il passaggio dal fiume Evros è più economico e sicuro. Dobbiamo partire subito. Il kardash curdo ci trasporterà in auto. Ci vediamo in Yunanistan (“Grecia” in lingua turca), Inshallah mibinamet. ” Me lo ha scritto in una email che non sono riuscito a leggere in tempo a causa dei continui spostamenti. Risale al giorno prima. Lo sconforto è totale.
La città si sveglia sotto un sole livido. Da quatto giorni non dormo in un letto. La stanchezza mi assale, e il mio aspetto è li a dimostrarlo: barba lunga, abiti sgualciti, andatura vacillante.
L’immenso mercato di Izmir è ancora quieto. Vago tra le saracinesche socchiuse, a caccia di informazioni. Rivolgendomi ai mercanti mi rendo conto che la parola “Basmane” genera una reazione indefinita, che si replica ad ogni sosta: vengo osservato, inquadrato, analizzato, ed infine indirizzato con premura, diversamente da quanto si farebbe con un turista qualsiasi.
Nella mia mente, a poco a poco, si fa largo un’idea che potrebbe riempire il vuoto lasciato dalla partenza anticipata di Mussa Khan, trasformare questo vicolo cieco in un momento di scoperta. Arrivato a Basmane, mi fingerò migrante anch’io. Il viaggio ha posato sui miei vestiti la polvere antica e sottile della strada dei muhajirin. Potrebbe funzionare, chissà.
L’idea muore sul nascere. “Sei arrivato tardi. Sono sei mesi che da Izmir non partono più gommoni per le isole greche.” La frase di Piril mi lascia attonito, confuso. Presidentessa dell’associazione “Multeci Der” (Associazione di solidarità con i rifugiati), ha accettato di incontrarmi nel primo pomeriggio, dopo un breve colloquio telefonico.
“Per primo si è inaridito il flusso che portava all’isola di Chios, circa un anno fa”, continua Piril. “Ma dopo l’arrivo della flotta di Frontex, la tendenza si è allargata anche a Lesvos, Samos e le altre isole. Oggi le partenze sono crollate, ce lo confermano anche le controparti greche.”
Frontex è la discussa agenzia UE per il controllo delle frontiere esterne. Arrivata nell’Egeo nel corso dell’anno, si occupa del pattugliamento delle coste e della rilevazione di dati all’interno dei campi di accoglienza. Sulle sue reali finalità e sui suoi metodi, però, esistono forti perplessità, manifestate più volte dagli stessi stati europei.
Piril traccia rapidamente un quadro della situazione. “In città esistono tre tipi di migranti. I first arrivals provengono soprattutto dal Corno d’Africa o dal Maghreb: normalmente fanno domanda di asilo e vengono quindi trasferiti nelle ‘città satellite’. Poi ci sono i rifugiati che, stanchi di aspettare il resettlment, arrivano qui per cercare lavoro, ma se capita l’occasione si imbarcano sui gommoni. Ma il gruppo più numeroso è quello degli unkown, i mai registrati. Per loro Izmir è solo un punto di transito. Arrivano fin qui da soli, da self sustained, oppure organizzati dai trafficanti.”
“E una volta arrivati qui, che cosa fanno?” Piril distoglie lo sguardo dagli appunti che riempiono la sua scrivania. “Vanno a Basmane” mi dice, e il suo sguardo si fa più intenso. “Il quartiere pullula di kaçakçılar, che organizzano i viaggi in gommone. Ma Basmane, ormai, è vuota. I migranti che la abitavano da anni cercano fortuna più a nord, e tentano di passare in Grecia lungo il fiume Evros.”
Un altro, colossale buco nell’acqua. Ho attraversato inutilmente mezza Anatolia. A Izmir non ho travoto nulla, nè Mussa Khan nè i muhajirin.
Vado alla stazione, mi attende un’altra notte di autobus. La prima corsa per Istanbul parte alle undici proprio da Basmane. Compro l’unico posto rimasto libero: almeno in questo sono fortunato.
Alle nove, l’oscurità avvolge la quiete portata dal tramonto. Bevo una birra al riparo di una pensilina, dopo settimane di astinenza. Rifletto. A due passi ci sono le strade contorte in cui, fino a pochi mesi fa, vivevano i muhajirin.
Mi restano due ore in città. Bevo l’ultimo sorso, la lattina vola lontano. Vicoli scuri preannunciano il labirinto di Basmane, che sembra pulsare magneticamente nella notte. Accendo l’ultima sigaretta, che si spegne senza fretta tra le mie dita. Nel silenzio, i dubbi trovano all’improvviso tutte le risposte. Prima di rendermene conto, sono già dentro.
“Amico! Cercavi me?” Abituandosi lentamente all’oscurità, gli occhi rivelano un profilo canuto. La figura del viso è tagliata da occhiali tenuti insieme col nastro isolante. Sono stato adescato.
Io: “no, non cercavo te. Cerco un amico.”
Lui: “E cosa fa a Basmane?”.
Io: “Viaggia.”
Lui: “chiunque venga a Basmane è in viaggio”. I suoi occhi continuano a fissarmi da dietro le lenti unte. Finalmente molla la streatta di mano. “Sediamoci a bere un tè, posso aiutarti a trovarlo.”
Gli eventi accelerano, come il mio battito. Sento il cuore in gola. Nessuno sa che mi trovo qui: sono solo, nella tana del lupo. L’occasione, però, è irripetibile. Accetto
Lui: “Di dov’è il tuo amico?”. Ordina i tè, guardandosi attorno.
Io: “Palestina. Come me.”
Ho fatto la mia mossa. Tra i migranti dire “palestinese” equivale a dire “la mia nazionalità non è affar tuo”. Non ci sono ambasciate palestinesi, e quindi non c’è modo di controllare il dato, nè per la polizia nè per chiunque altro.
Continuiamo a parlare del “mio amico”, consapevoli entrambu che l’artificio verbale è lo strumento che permette di non scoprire le carte.
Lui: “Dove va ? Quando parte?”
Io: “Parte presto, per l’Italia. E’ a Basmane perchè non ha i soldi per prendere l’aereo. Ma con lui ci sono altri cinque muhajirin palestinesi. Forse, insieme, possono ottenere uno sconto”.
Lui: “E dove sono?”.
Io: “In giro, a valutare altre offerte.”
La frase cambia tutto. L’uomo si fa avanti con la sedia, accosta la bocca al mio orecchio. “Senti. Vuoi la tua parte nel business?” Non mi dà il tempo di rispondere. “Te lo dico subito, se mi porti venti harragas, il tuo posto è gratis. Con noi viaggi sicuro, lo scorso anno abbiamo trasportato cinquantamila persone, afghani e africani. Lo sapevi?”. Un ghigno ferino tradisce una bocca sdentata.
“Dimmi di più”. Col tono di un agente di viaggio, l’uomo illustra il servizio che offre. “Ci vediamo in spiaggia, diciamo a Kusadasi. Voi venite in autobus, per dare meno nell’occhio. Troverete un gommone Zodiac, sarete al massimo venticinque. Uno di noi guida lo Zodiac fino all’isola, ci mettiamo al massimo tre quarti d’ora.” Poi guarda lo zainetto ai miei piedi. “Puoi portare anche il bagaglio!” Un nuovo sorriso.
So che mente. So quali enormi responsabilità abbiano questi individui nella morte di migliaia di persone. I muhajirin di Van e di Gaziantep mi hanno già raccontato tutto: una volta arrivati in spiaggia, di notte, spaventati dal possibile arrivo della polizia, ci si ritrova imporvvisamente in cinquanta su un gommone progettato per dieci. Anziani, bambini, uomini, donne. Molti non sanno nuotare. A tracciare la rotta è uno dei passeggeri, senza alcuna esperienza. La marina turca e la guardia costiera greca rappresentano minacce mortali.
Io taccio, lui continua a mentire. “Se il primo tentativo fallisce, quelli successivi sono gratis. Finchè non arrivate a destinazione.” So bene che acquistando il mio passaggio a Basmane non avrò alcuna garanzia. Così è accaduto per i figli di Abdal Halek e per molte migliaia di migranti che non sono mai arrivati in Grecia.
“Va bene, ma devo prima parlare con i miei amici.” Ho voglia di chiudere in fretta. Sono qui da mezz’ora, troppa gente mi ha notato. Un appunto su un foglio indica il luogo di incontro per la sera successiva. Prezzo pattuito: dodicimila euro, duemila a testa. “Per il giorno della partenza”, aggiuge “bisogna aspettare il vento. Potrebbe essere tra un giorno o tra una settimana”.
Appoggio due lire sul tavolo. “Offro io”. “Amico”, mi dice il trafficante mentre mi alzo,“se mi offri un pacchetto di sigarette ti porto da amici. Un harrag marocchino ha pagato con un sacco dihashish“. Prendo la mia roba. “Domani”.
Vado via a passo svelto, senza voltarmi, fino alla stazione. Non ho più piste da seguire, se non una vaga indicazione: il “nord”.
Nella mia mente si accavallano mille sensazioni. A prevalere però, inaspettatamente, è la felicità: sono felice di non dover mettere la mia vita nelle mani di un trafficante, felice di essere libero. Non so quali pericoli attendono Mussa Khan sull’Evros, ma l’idea che non abbia accettato le infami condizioni di viaggio imposte dai kaçakçılar di Izmir mi consola.
Salito in autobus, mi addormento subito. A cullarmi, sulla strada per Istanbul, un pensiero: il viaggio alla ricerca di Mussa Khan mi sta spingendo negli angoli oscuri del nostro tempo, mettendomi continuamente alla prova. Da quando ho perso le sue tracce a Van, il mio uomo diventa ogni giorno un miraggio, sempre più sfocato.
Ad ogni chilometro che passa, però, il volto di Mussa, delle migliaia di Mussa in viaggio verso l’ignoto, diventa più familiare. Sento che in me respirano brandelli di vite e di storie raccolti sulla loro strada. Per quanto continui a sfuggirmi, Mussa non è più lontano.(mussakhan.wordpress.com)
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