Ha qualcosa di surreale la scena del sindaco e del suo enturage che — circondati dal cordone sanitario di poliziotti e dalle telecamere, con al seguito la piccola folla urlante divisa tra chi contesta a prescindere e chi ripone nell’occasione ancora un po’ di speranza — corrono al calare della sera nei meandri della giungla di cemento delle case popolari di viale Giorgio Morandi.
Qualcosa che stride aspramente con l’altra scena, di un’ora prima, di sei ragazzini immigrati, fuggiti dalla casa famiglia dell’Infernetto (dall’altra parte della città) dove erano stati trasferiti giovedì e arrivati digiuni e stremati davanti al centro di accoglienza dove hanno vissuto per lungo tempo, che chiedevano disperati di poter tornare da quella che ormai era diventata la loro famiglia. Uno di loro si è sentito male poco dopo: un attacco epilettico.
E’ stato ricoverato in ospedale.
La visita del quartiere, per mostrare al sindaco il degrado e l’abbandono di cui soffre questo pezzo di periferia, nel quadrante est della Capitale, è stata decisa dentro il bar all’angolo, in una mezz’ora di confronto serrato con i cittadini, a tratti anche duro ma a detta di tutti costruttivo. Ignazio Marino, accompagnato dal vicesindaco Luigi Nieri e dal presidente del V municipio Gianmarco Palmieri, è arrivato inaspettatamente a Tor Sapienza alle cinque del pomeriggio con l’intenzione di incontrare subito i 35 rifugiati adulti rimasti soli nel centro di accoglienza per richiedenti asilo dopo che giovedì lo stesso Comune, cedendo alle dure proteste degli abitanti, ha deciso di trasferire in altre case famiglia i 46 minori non accompagnati che vi vivevano. Ma la rabbia degli abitanti del quartiere andava placata subito. E così, con l’irruenza un po’ goffa tipica dell’attuale inquilino del Campidoglio, che ha dimostrato comunque senz’altro del coraggio, il cronoprogramma ha subito un repentino ribaltamento. Prima gli italiani.
«Mi hanno consegnato una lista di sei punti per la riqualificazione del quartiere, abbiamo stabilito delle priorità e domani (oggi, ndr) alle 11 riceverò una rappresentanza di residenti in Campidoglio per stilare insieme un progetto – racconta Marino in un’improvvisata conferenza stampa in mezzo ai casermoni dell’Ater — Ho promesso che farò di tutto perché il centro di accoglienza, che non deve chiudere, possa d’ora in poi ospitare prevalentemente donne e bambini, riducendo al massimo la presenza di uomini adulti. Sono venuto qui perché sento di dover essere vicino a queste persone, che non sono razziste, come le hanno descritte. Li ringrazio invece perché mi hanno detto che sarebbero felici di vedere i loro bambini giocare con altri bambini che vengono da differenti parti del mondo. A Roma vogliamo essere orgogliosi della nostra accoglienza».
Eppure, c’è molta strada da fare ancora. Quella folla che a sera si divide tra chi contesta il sindaco a suon di urla e chi vorrebbe strappargli una promessa in più, che arriva a litigare spaccandosi tra gli abitanti dei lotti residenziali di Tor Sapienza, dove «c’è l’illuminazione stradale e puoi ancora trovare le strisce pedonali», e quelli degli alloggi popolari di viale Morandi, dove l’unica presenza dello Stato è in quel centro di accoglienza per asylanten, quella stessa folla, un’ora prima dell’arrivo del sindaco, era rimasta impassibile davanti ai volti disperati e terrorizzati di sei ragazzini dalla pelle scura che hanno attraversato con gli autobus la città per tornare dove avevano trovato una «famiglia».
Scendono dalla fermata dell’autobus e, chiusi nei cappucci delle loro felpe, si infilano tra le ali di poliziotti che li riparano dalle telecamere. Hanno le lacrime agli occhi: «Io lì non ci torno, non mangiamo nulla da questa mattina, vogliamo stare qui, con voi», dice un ragazzino africano alto e sottile a Gabriella Errico, la dirigente della cooperativa “Un sorriso” che gestisce la struttura. Si guardano attorno, hanno paura. Uno di loro poco dopo si sente male, viene trasportato in ospedale. Stessa scena in mattinata, quando altri 15 giovani richiedenti asilo, provenienti da Latina dove sono stati trasferiti, erano arrivati davanti al centro per riabbracciare gli operatori che si sono a lungo occupati di loro. Nello stesso frangente in cui Mario Borghezio, arrivato a Tor Sapienza per soffiare sul fuoco dell’intolleranza, si è fermato alle porte del quartiere perché qualcuno lo ha avvertito che non era ben accetto.
«Questi ragazzi hanno subito un’altra violenza – racconta un’operatrice del centro – la brutalità di un distacco che non hanno potuto elaborare. Qui seguivano scuole, corsi di formazione, attività di laboratorio. Qui avevano stretto amicizie. Ora dovranno ricominciare tutto da capo. Ma noi operatori abbiamo deciso di proseguire l’accompagnamento dei ragazzi negli altri centri dove sono strati trasferiti per tutto il tempo necessario a riportare un po’ di calma e serenità nella loro vita». Sempre che la protesta non si riaccenda da qualche altra parte.
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