Quando Ahmed è salpato dal molo di Misurata non si è guardato indietro. Non c’era nessuno a dirgli addio. Sua madre era in Ghana, sua sorella in Nigeria e il fratello maggiore in Germania. Suo padre era scomparso molto tempo prima. Nella sua famiglia Ahmed è il fratello minore, aveva da poco compiuto 15 anni quando ha dovuto lasciare casa e andare a cercare un lavoro. Non riuscendoci in Ghana, se n’è andato. Ha attraversato il Togo, il Benin, la Nigeria, il Mali e l’Algeria, prima di arrivare in Libia. Ahmed ricorda quei tempi con un sorriso.
“È vero che non c’era libertà, ma c’erano posti di lavoro”, racconta. “Ho trovato lavoro in un cantiere edile in una città vicina a Tripoli e lavoravo ogni giorno. Era fantastico. Poi, è iniziata la guerra…” Il suo sorriso si smorza. “In maggio non potevo più stare lì. Avevo investito tutti i miei risparmi per pagarmi il viaggio per scappare dalla Libia. Abbiamo trascorso 5 giorni in mare prima di sbarcare a Lampedusa. C’erano centinaia di migranti sull’isola, e i centri di accoglienza erano così sovraffollati che abbiamo dovuto dormire fuori, per strada. Dopo due settimane, ero di nuovo su una motonave.”
Ahmed voleva andare a Berlino e raggiungere il fratello, ma è stato trasferito in un centro di accoglienza per minori in un paese di campagna in Sicilia, giusto prima dell’inizio della stagione di raccolta. “Avrei preferito trovare un lavoro dov’era richiesto l’uso del mio cervello e non delle mie braccia solamente, ma l’unica possibilità era lavorare nei campi,” dice Ahmed. “Lavoravamo dalle 6 del mattino alle 4 del pomeriggio, per 30 euro al giorno. Dopo aver lavorato tutto il giorno, ero troppo stanco per fare altre cose, così me ne stavo sdraiato a letto fino al giorno seguente. Con l’arrivo dell’inverno ci siamo fermati. Qui in Italia si lavora per un giorno o due e poi non ci sono altri lavori da fare per settimane. Non è come in Libia. A che cosa serve la libertà se poi non trovi lavoro?”
Nel centro dove si trova Ahmed ci sono altri dieci ragazzi come lui, provenienti dalla Tunisia, Egitto, Bangladesh, e dal Ghana. Dieci storie molto diverse tra loro che vivono sotto lo stesso tetto. Alcuni sono fuggiti dai loro Paesi per via della paura di essere perseguitati, altri a causa della povertà e delle privazioni; altri stanno inseguendo il mito del successo tramandatogli da un parente che è emigrato molto tempo fa, altri ancora sono stati cacciati di casa perché la loro famiglia non poteva più mantenerli; alcuni sono in Italia per scelta, altri perché di scelte non ne avevano. Dal momento che si tratta di minori, soli e stranieri, i ragazzi immigrati senza genitori sono una categoria particolarmente vulnerabile di migranti e la legislazione internazionale raccomanda di fornire loro uno speciale sostegno. Ma i loro diritti sono ripetutamente dimenticati.
A seguito dei tumulti della primavera araba, nel 2011 più di 55mila migranti sono sbarcati nella piccola isola di Lampedusa e tra questi 4.500 erano ragazzini non accompagnati. I ritardi nei trasferimenti sulla terraferma e la carenza di organizzazione nei centri di accoglienza hanno creato a Lampedusa una situazione caotica, con centinaia di migranti lasciati senza riparo né cibo, senza acqua, né protezione legale o assistenza medica. In aprile, è stato dichiarato lo stato di emergenza. “I minori sono rimasti per settimane con materassini gonfiabili o stesi per terra, in un edificio dove si soffocava di giorno e si gelava di notte”, denuncia Alessandra Ballerini, un avvocato con specializzazione in immigrazione e diritti umani. “Erano detenuti illegalmente e trattati come criminali, sebbene non avessero commesso alcun reato.”
Nel 2012 il flusso di immigrati è diminuito e si dice che la situazione sia tornata alla “normalità”. Dietro la parola “normalità”, purtroppo, si nascondono spesso tragedie quotidiane. Il 6 settembre una motonave con a bordo 136 giovani immigrati è affondata, a tre miglia circa da Lampedusa. Solo 56 sono stati recuperati, e tra loro 5 erano minori non accompagnati. Mentre i nuclei familiari sono stati trasferiti sulla terraferma, i cinque ragazzini sono rimasti per settimane nel centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, in condizioni del tutto inadeguate. Anno nuovo stessa storia. “Per lo Stato [italiano, ndt] è più semplice aspettare fino a quando compiono 18 anni”, aggiunge Ballerini. “Appena hanno 18 anni e se sono ancora senza documenti, lo Stato non deve loro nulla. Se si considera che l’anno scorso 830 minori sono scomparsi dai centri di accoglienza, è chiaro che lo Stato italiano ha fallito.”
I giovani migranti spesso fuggono dai centri di accoglienza, sperando che una volta fuori di lì possano iniziare una nuova vita e trovare un lavoro. “Sono sotto pressione”, spiega Rossella Zenoni, direttrice di una casa-accoglienza in centro a Milano. Molti non volevano abbandonare la loro terra di origine, ma sono stati i genitori a decidere di farli espatriare, e ci sono quelli che fanno debiti con i trafficanti di persone per 3.000-3.500 euro. Quindi, i giovani migranti devono trovare un lavoro velocemente per ripagare il debito e per le spese del loro viaggio. In molti centri di accoglienza si cerca di migliorare l’integrazione dei ragazzi migranti nel mondo del lavoro. “Il nostro gruppo lavora con i minori, prendendo in considerazione la loro motivazione e necessità”, dice Mariella Bisesi, direttrice della cooperativa sociale ‘La Vela Grande’ a Palermo. “Innanzitutto i ragazzi seguono dei corsi elementari di lingua, in seguito offriamo loro di iniziare uno stage. A coloro che hanno una paga regolare offriamo anche un appartamento, dove pagano solo una quota e le bollette.”
Hussan, diciottenne, è uno dei cinque ragazzi ospiti dell’appartamento. Lui è arrivato un anno fa dal Bangladesh e sta facendo uno stage in un ristorante dove impara a fare il cuoco. “Quando sono arrivato in Italia il trafficante con cui stavo viaggiando mi ha sequestrato passaporto e cellulare, e mi ha abbandonato in una città vicino a Roma”, racconta Hussan. “Mi sono sentito completamente perso. Poi le cose sono iniziate ad andare bene. Adesso che ho imparato l’italiano, ho molti amici, ho un lavoro e non mi manca mai il cibo. I miei genitori mi chiedono di tornare indietro perché hanno nostalgia di me. Anche a me mancano, ma non posso tornare indietro. Devo lavorare, se voglio mantenere il lavoro devo stare qui.”
Il lavoro attualmente scarseggia, in ogni caso, e trovare un posto come portiere o lavapiatti è questione di fortuna. “Qui in Italia il problema principale è il mercato nero del lavoro”, continua Bisesi. “I ragazzi mi chiedono sempre: perché dovrei aspettare per avere un lavoro, quando ogni italiano lavora senza un contratto regolare? Vero, i giovani italiani possono lavorare illegalmente. Ma se si scopre un minorenne immigrato al lavoro illegalmente, rischia di essere rimpatriato.” Illegalità è una parola che va di moda nel mondo dell’immigrazione. La maggioranza silenziosa di coloro che lavorano nei campi sotto il sole che scotta, sono illegali, così come lo sono quelli che richiedono asilo e non sono accettati, illegali sono anche gli immigrati nei centri di identificazione ed espulsione. Chiamandoli ‘illegali’ rende le cose molto più semplici, in quanto non è garantito nessun diritto ai fuorilegge. I minori immigrati, tuttavia, non possono essere definiti illegali e la legge prevede che la loro tutela sia un dovere dello Stato in cui arrivano. A tutt’oggi, questo dovere è molto spesso ignorato.
Ci sono minori afgani che dormono al freddo presso la stazione ferroviaria di Roma, ci sono minori nigeriane costrette a prostituirsi nella periferia di Milano, ci sono minori ghanesi che raccolgono pomodori nelle campagne siciliane: sono invisibili, elementi dimenticati nel fenomeno dell’immigrazione giovanile. “Loro sono consapevoli di essere i pionieri di un nuovo ciclo storico”, dice Curcio, sociologo e saggista. “Senza una patria dove tornare, senza una nuova terra da abbracciare o conquistare, con i loro piedi e la loro testa in un nuovo mondo senza confini, dove qualsiasi cosa deve essere creata a partire da zero. Karim, uno dei ragazzi, ci ha rivolto questa domanda: credete che questo mondo sia vostro, avete provato a richiuderlo dentro a muri e confini. Ma oggi anche noi siamo qui dentro, allora… a chi appartiene questo mondo?”
Una domanda disarmante. È anche il loro mondo, ma è un mondo che non è disposto a trovare loro una sistemazione. Sono dentro i ‘nostri’ confini, ma sono condannati ad essere estranei. Se vogliono sopravvivere, devono accettare lavori massacranti e sottopagati, sopportare umiliazioni di ogni genere, vendere i loro corpi, perdere la loro infanzia e i loro sogni. Per coloro che non hanno la fortuna di trovare un lavoro, ma che non accettano di venire espulsi, rimane solo una scelta. Devono ripartire. L’Italia sta diventando uno stato di passaggio, una tappa obbligatoria prima di incamminarsi verso le ricche nazioni europee.
Dopo un anno in Italia, ad esempio, Ahmed sta sognando la Germania. “Non può essere come qui in Sicilia,” dice. “Sono sicuro che là troverò un lavoro. Appena avrò i documenti, me ne andrò.” L’ignoto non lo spaventa. Il mondo chiama, e Ahmed è pronto a rispondere.
Lorena Cotza - vociglobali.it