Nella tarda mattinata di oggi è iniziato il mio viaggio
all’interno del Cie di Ponte Galeria. Mi ero promesso di liberarmi, prima
dell’ingresso, di ogni preconcetto che mi impedisse di osservare la realtà con
sguardo obiettivo. Mi sono bastati pochi minuti all’interno del “non luogo” per
eccellenza che spogliarmi di rabbia e pregiudizi è diventato quasi impossibile.
A pochi passi dai padiglioni della Fiera di Roma, si erge
imponente una struttura sterile dai colori opachi e visibilmente tristi. Uomini
delle forze dell’ordine governano l’accesso: entrare al Cie è impossibile. La
visita di oggi, annunciata e attesa, ha consentito ad una delegazione di donne e
uomini di varcare la soglia, quella linea sottile che delimita la “civiltà”
dall’emblema della violazione dei diritti umani.
A Ponte Galeria sono detenuti oltre duecento immigrati
irregolari, che ancora oggi i più definiscono “clandestini”, ennesima
dimostrazione della volontà di mettere ai margini richiedenti asilo, profughi e
uomini impauriti che dopo aver attraversato il deserto e subìto le pene più
crude, come la fame e le botte, si ritrovano prigionieri di uno stato,
l’Italia, ancora incapace di gestire un’emergenza come questa.
Come tutte le anime in difficoltà che entrano al Cie di
Ponte Galeria, anche noi, da visitatori, abbiamo avuto il nostro Caronte, come
Virgilio ci ha illustrato il percorso che un immigrato compie quando subisce
l’ennesima sventura di essere portato al Cie di Ponte Galeria. Prima la sala
interrogatori, alla destra dell’ingresso e del metal detector. Pareti bianche,
sedie arancioni. Chi sa quanti uomini hanno pianto tra quelle quattro mura, chi
sa quanti hanno preferito tacere. Tra quattro mura un immigrato irregolare si
trova di fronte il primo ostacolo, mette sul tavolo della trattativa tutto
quello che ha: il desiderio forte di non ritornare nel suo Paese, ottenendo in
cambio una detenzione serrata e ferrea. La prima speranza che anima un
immigrato è quella di essere interrogato alla presenza di un interprete che
conosca la sua lingua e che possa riferire alla polizia quanto subito e quanto
auspicato. Dovrebbe funzionare così ma troppe volte lo Stato italiano non
comprende l’origine dell’immigrato.
Continuo a camminare, seguo gli altri compagni e l’attesa
per quello che vedrò diventa immancabilmente insostenibile. Gli “ospiti”, così vengono definiti dagli
operatori del centro, sono divisi in due padiglioni: uno per le donne, l’altro
per gli uomini. Un sentiero separa i generi. Uomini e donne non si incontrano
mai, nemmeno a mensa. Gli immigrati sono “detenuti” all’interno di lotti, che
la stampa, a ragion veduta, ha definito “gabbie”. I lotti sono dei moduli, una
sorta di prefabbricati composti da una stanza con sei letti, un bagno.
Gli “ospiti” del centro sono collocati in due aree ben
distinte, non comunicanti: uomini da un lato, donne dall’altro. E’ tutto
irreale, una prigione dai contorni inquietanti. Una facciata che mi rifiuto di
accettare. La rabbia mi pervade. Gli sguardi degli immigrati, spenti, disperati
e speranzosi allo stesso tempo mi dilaniano l’anima. Non è uno zoo, non mi
aspetto di vincere un orsetto alla fine dei “giochi”. Loro ci guardano e noi
guardiamo loro. La curiosità presto lascia il posto all’indignazione. Mi
bastano pochi minuti per giungere alla conclusione che una volta fuori di qui
mi batterò, ancor di più, per impedire che tutto ciò abbia un seguito.
Seguo nelle “gabbie” la delegazione ispettiva. Ho il cuore
in gola. La sensazione che mi pervade è un misto di rabbia, rancore e
soprattutto impotenza: essere lì senza avere gli strumenti per cambiare le
cose. Una sensazione che mi rimbalza ancora una volta addosso quando uno degli
ospiti mi chiede “Che ci faccio ancora qui?”. Sono uno studioso delle politiche
migratorie, conosco la legge, la Costituzione e per quanto vorrei, non riesco
in nessun modo a trovare una risposta a quella come ad altre domande. E’ questa
l’Italia? Mi chiedo. E’questo lo stesso Paese da cui sono partiti migliaia di
italiani migranti? E’ questo il Paese che dovrebbe, come da legge, garantire il
rispetto dei diritti individuali?
“Mio padre è morto e non ho potuto vederlo neppure per
l’ultima volta” – mi dice un “detenuto” del centro. “Ho due figli, non so più
niente di loro, non li posso vedere, non li posso sentire al telefono” –
dichiara con voce sofferta un altro “ospite” di quello che non è un albergo a
cinque stelle e nemmeno un ostello di bassa lega: è un carcere, una prigione. Parlare
con gli immigrati, interagire con loro, mi ha fatto capire quanto possa essere
fragile e piena di falle la “cosa pubblica” che dovrebbe favorire rispetto e
integrazione. Molti di loro, sia uomini che donne, parlano la nostra lingua,
altri un creolo corredato da inglese, francese e italiano. La nostra presenza
avrà acceso in loro una fiamma di speranza. Avranno pensato che forse, eravamo
lì per salvarli, aiutarli. Nel giro di pochi minuti, gli immigrati presenti nel
centro, soprattutto nella sezione maschile del “carcere”, hanno dato spazio a
tutta la loro rabbia cercando di attirare la nostra attenzione. Ognuno di loro
voleva raccontarci la loro storia, magari fatta anche di violenza e soprusi.
Non tutti però hanno potuto. Nonostante le gabbie voglio credere che questo non
sia uno zoo e che i carcerieri non puniscano gli “animali” che sono sfuggiti al
controllo durante la visita.
Qualche osservazione. Chi sono gli “ospiti” dei Cie? Perché
i centri di identificazione ed espulsione sono illegali? Domande inevitabili
come inevitabile è l’indignazione conoscendo le risposte. Nei Cie sono
“rinchiuse” donne vittime della tratta fermate dalla polizia lungo le strade
delle città. Loro, quelle donne che ho visto al Cie di Ponte Galeria, non
dovrebbero essere lì, dovrebbero essere protette e non espulse o imprigionate
come, invece, avviene. Questo è quello che prevede l’art.18 del Testo Unico
sull’immigrazione. All’interno dei Cie sono detenuti tossicodipendenti, ex
detenuti, persone affette da malattie fisiche o mentali, uomini che per legge,
in un Cie non dovrebbero mai mettere piede. Nei lotti, nelle gabbie, ci sono
richiedenti asilo “rifiutati” dalle commissioni o in attesa di giudizio o, quel
che è peggio, ignari della possibilità di chiedere asilo nel nostro Paese. Ci
sono poi gli irregolari, quei migranti che, nonostante abbiano fatto richiesta
del permesso di soggiorno non l’hanno mai ottenuto perché truffati dal datore di lavoro o dalle
leggi italiane sulle sanatorie, migranti per i quali è impossibile per legge
convertire o rinnovare il titolo di soggiorno. Se in Italia, ogni tanto si
tenessero in considerazione le leggi, si saprebbe che gli articoli 10 e 13
della tanto citata Costituzione recitano “L’ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La
condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle
norme e dei trattati internazionali” (art.10) – “La libertà personale è
inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o
perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà
personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge” (art.13).
Sapevo che questa esperienza, in un modo o nell’altro,
avrebbe cambiato la mia storia, quella di un uomo libero che non credeva
potessero esistere realtà così dure da capire e difficili da cambiare. Pensieri
di contrasto, stati d’animo avvilenti commisti alla rabbia e all’impotenza.
Oggi ho conosciuto uomini e donne che sono fuggiti da paesi poveri, violenti e
che dopo un lungo viaggio della speranza che per alcuni è finito nelle acque
del Mediterraneo, si sono ritrovati chiusi in un carcere in un Paese che si
professa democratico e che invece non applica neppure le leggi.
Il mio impegno, da oggi in poi, sarà rendere note le
circostanze, le situazioni, gli sguardi di speranza che ho incontrato affinché
in Italia, gli addetti ai lavori, agiscano, una volta per tutte, in difesa dei
diritti umani sanciti dalla Costituzione, senza nascondere la testa nella
sabbia, fingendo di non vedere. I Cie esistono e vanno chiusi. Siamo andati a
Ponte Galeria per vedere e raccontare, per attirare l’attenzione di media e politica
affinché questi luoghi della vergogna vengano chiusi. Mai più Cie!
LEONARDO CAVALIERE