Appuntamento col diavolo


Van
4° post. I kaçakçılar, i trafficanti di esseri umani, non hanno biglietti da visita, né uffici di vendita. Si confondono tra la gente nei vicoli, nelle caffetterie, nella piazza davanti alla moschea. Sfuggenti, invisibili, onnipresenti sulla rotta dei migranti, potrebbero essere l’unico mezzo per ritrovare le tracce di Mussa Khan

Alle 6 e mezzo Naqeeb mi butta giù dal letto. “In piedi kardash! Dobbiamo andare a firmare prima che si formi la fila. Sbrigati!” Firmare? Fila? Troppo complicato, lo seguo meccanicamente, con la mente ancora intorpidita dal sonno.
La città si sveglia rumorosamente: in strada, una dopo l’altra, si arrotolano le serrande dei negozi, i minibus strombazzano nelle rotatorie, i risciò a pedali scorrazzano scaricando merci nei vicoli già ingombri. Naqeeb si ferma in continuazione per salutare gente alla maniera pashtun, un ampio abbraccio seguito da un tocco reciproco con la spalla destra.
Sul dolmus, l’affollato minibus, Naqeeb mi spiega finalmente il motivo della levataccia. “Tutti i richiedenti asilo devono firmare il registro. Il martedì e il giovedì è il turno degli uomini, il mercoledì quello delle donne”. Alla centrale di polizia, capisco il perchè della fretta: molte persone sono già in attesa del proprio turno, e la fila si ingrossa rapidamente sotto i miei occhi. “Nessuno può lasciare Van, le pene per chi non firma sono severe”, dice Naqeeb.”Per evitare fughe, la polizia requisisce il passaporto al momento dell’arrivo a Van. Lo riavremo solo nel giorno della partenza stabilita dall’agenzia per i rifugiati dell’ONU”.
Nell’ufficio, cinque registri riportano su ogni pagina una matricola, un nome, una foto e un indirizzo, mentre un foglio affisso sulla porta indica una cifra da uno a quattro: è il numero di firme che si devono apporre in quel dato giorno. “Matricola B01650”, Naqeeb trova in fretta la sua scheda, e mentre la penna scorre veloce sul registro, mi invita a guardare le tante pagine coperte da croci incerte: sono le schede dei rifugiati analfabeti.
Col tempo, l’obbligo della firma si è trasformato in un momento cruciale nella vita della comunità afghana: qui si incontrano i nuovi arrivati, si allacciano rapporti, si parla di quelli che sono fuggiti.
Naqeeb mi presenta decine di muhajirin afghani. “Siamo prigionieri di questo paese che non ci vuole” mi dice Rahmatullah. “Io non ho lasciato l’Afghanistan per venire a vivere qui. Ma arrivato a Izmir per raggiungere la Grecia via mare, i trafficanti mi hanno messo insieme a altre 40 persone su un gommone che ne poteva contenere 15.” Tra i passeggeri anche la moglie e i 4 bambini. “Ho rinunciato. Come può un padre assumersi un richio simile?”
Per sopravvivere, molti hanno trovato impiego sul mercato nero, sottoponendosi a orari massacranti o accentando lavori umili per qualche spicciolo.
Morteza aveva una bottega da sarto nel bazaar di Kabul. A metà degli anni novanta le bombe dei mujaheddin di Hekmatyar la rasero al suolo, insieme al resto della città. I morti furono 50mila. Per sopravvivere a Van continua a tessere, fabbricando coperte di ottima qualità.
“Le mie coperte erano conosciute in tutta Kabul, e sono molto apprezzate anche qui. Ma non posso venderle direttamente, sono costretto a passarle a un negoziante turco. Lui guadagna 60 lire (30 euro) per ogni pezzo, mentre a me ne arrivano solo 10. E in una settimana riesco a produrne al massimo una dozzina, col lavoro di tutta la famiglia.”
Lo stesso Naqeeb è vittima di sfruttamento. Appena arrivato a Van, riuscì a trovare impiego in una agenzia di consulenza informatica. Tre mesi di lavoro intenso, e nemmeno un soldo. Quando finalmente si decise a chiedere al datore almeno una parte degli stipendi mai pagati, fu licenziato in tronco. Oggi il fornaio per cui lavora gli allunga in nero 25 lire al giorno. I suoi colleghi turchi guadagnano il doppio.
A pranzo siamo ospiti di una famiglia tagika, per numero la seconda etnia dell’Afghanistan dopo quella pashtun. Naqeeb parla anche la loro lingua. Carne di montone bollita e speziata, riso e patate lesse, pane azzimo. Mentre beviamo il caffè distesi sui tappeti, unico arredo della stanza, Naqeeb torna a parlare in inglese.”Ora che lo stomaco è pieno, dimmi del tuo amico”. Aspettavo con ansia questo momento.
Racconto la storia di Mussa Khan partendo dalla fine. Parlo della sua fuga da Mashad, oganizzata in un sola notte; della disapprovazione della sua famiglia rispetto alla sua partenza; dell’infanzia e dell’adolescenza passate in Iran, sognando un Afghanistan mai visto; del suo desiderio di vedere il Colosseo; del suo viaggio solitario e della consapevolezza dei rischi che corre. Ed infine, del progetto di incontrarlo quaggiù e di seguirlo fino in Italia per raccontare il suo viaggio.
Naqeeb ascolta in silenzio, guardandomi fisso in volto. Poi resta a lungo assorto, come chi sta meditando un rischio. “Non è impossibile trovare il tuo amico”. Le sue parole si fanno atone, fredde. “Prima di cominciare, però, sappi che nel tuo viaggio vedrai e ascolterai cose che potrebbero non piacerti. Chi fugge dall’inferno si tira dietro tanti diavoli”.
So bene chi sono i diavoli di Mussa Khan. Qui li chiamano kaçakçılar. Sono diavoli in carne ed ossa, disseminati lungo tutte le principali rotte migratorie che portano in Europa, dall’Africa subsahariana al Maghreb, dai Balcani al Pakistan. Sapevo che prima o poi li avrei incontrati anche io, anche se di questo momento non ero mai riuscito a immaginare i contorni, i luoghi, i protagonisti e sopratutto il senso improvviso di solitudine. “Nessun problema,” rispondo meccanicamente, “sono pronto.”
Naqeeb prende il telefono. Una conversazione asciutta, tre o quattro battute. Riaggancia, ritrova il sorriso. “L’appuntamento è tra un’ora.”
Le montagne alle spalle di Van
I trafficanti di esseri umani non hanno biglietti da visita, nè uffici di vendita. Si confondono tra la gente nei vicoli, nelle caffetterie, nella piazza davanti alla moschea. I kaçakçılar incrociano gli sguardi dei passanti studiandone la reazione, l’aspetto, l’età: la loro merce è delicata, proporla ad un cliente sbagliato potrebbe rivelarsi una mossa fatale.
Naqeeb si intrattiene a lungo con un ragazzo, forse un suo alunno, accovacciato su un marciapiede, la schiena appoggiata al muro tra due saracinesche. Parlano darì, un dialetto persiano, la lingua franca afghana. Siamo in ritardo per il nostro appuntamento, un’ora è passata da tempo, lo incalzo. “Calma kardash“, mi risponde sorridendo, “è lui il tuo uomo!”.
Poco più che un adoloscente, telefonino alla mano, il trafficante è quanto di più lontano dall’immagine che mi ero costruito. Naqeeb, lo scopro solo ora, gli ha già spiegato tutto, convincendolo a parlare. Così, senza perdere tempo, senza farmi domande, il ragazzino mi dice in perfetto inglese: “Il tuo amico non è più qui. Un uomo che viaggia da solo non si ferma a Van, a meno che non abbia finito i soldi e debba aspettare un moneygram o un Western Union. Lui non vorrà certo restare intrappolato come richiedente asilo in Turchia. Forse è già ad Atene.”
“Quando i muhajirin scendono dalle montagne”, continua “aspettano solo uno o due giorni, il tempo necessario a riempire una macchina, un furgone, o un camion per Istanbul”. La tariffa è 500 dollari, una cifra enorme. Il biglietto per un autobus di linea ne costerebbe 59. “Restare a Van è pericoloso”, conclude “la polizia fa spesso retate. Per colpa loro sparirsce tanta gente.” Poi abbassa lo sguardo, tornando a controllare la strada, i passanti. La conversazione è finita, insieme alla speranza di incontrare Mussa.
“Per un self sustained come Mussa Khan è più pericoloso, perchè non ha un garante che gli dia protezione”, mi spiega mentre ci allontaniamo Naqeeb. Il garante è una persona, normalmente un parente rimasto a casa, addetto ad effettuare il pagamento ai trafficanti una volta che il viaggiatore sia arrivato a destinazione sano e salvo, dopo una telefonata di conferma. Di solito gli afghani redigono un contratto scritto che include il luogo di destinazione, la somma e il metodo di pagamento. Per Atene si spende fino a 10.000 euro, per Londra anche il doppio.
“Però c’è un vantaggio”, mi spiega Naqeeb. “Mussa è libero di muoversi dove e come vuole, ed eventualmente di fermarsi, se trova le condizioni giuste”. I viaggiatori sui quali incombe un contratto, al contrario, vengono obbligati a concludere il loro viaggio. Ad ogni costo. “In caso contrario, infatti,”, aggiunge Naqeeb, “il garante non è tenuto a versare la somma stabilita”.
Questo meccanismo, se da una parte offre maggiori garanzie, dall’altra genera una spietata mercificazione dei migranti: obbligati a viaggi massacranti, ammassati in locali miseri, sequestrati per settimane o mesi in attesa che venga organizzato il prossimo spostamento.
Giornate con i muhajirin
Le giornate con Naqeeb scorrono veloci. In assenza di notizie di Mussa decido di restare a Van, accettando l’infinita ospitalità deimuhajirn. Le loro vite, per quanto misere, non hanno perso la loro dignità. Un fitto sistema di rapporti, amicizie, parentele, legami clanici e tribali intreccia le loro esistenze dando luogo a una robusta rete di solidarietà.
E’ di nuovo venerdì, ormai sono a Van da una settimana. Anche questo pomeriggio si spegne come gli altri, al campetto di calcio dove i muhajirin si sfidano in base alle nazionalità: afghani contro iraniani, pakistani contro curdi.
Tornando a casa mi fermo nel solito internet point, controllo l’email. E’ un colpo improvviso, un sussulto. A dieci giorni dalla sua partenza Mussa Khan è tornato a farsi vivo, essenziale come al solito: “Sono a Izmir, ripartiamo fra tre giorni. Ecco il mio numero di telefono.” Ce l’ha fatta, è arrivato sull’Egeo.
Chiamo subito Naqeeb: “Kardash, passo da casa a prendere la mia roba. Parto stanotte”.(mussakhan.wordpress.com)

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