8° post. Turchia, Bulgaria, Grecia. Tre nazioni separate e unite dall’Evros-Meriç-Maritsa, oggi ultima porta per i muhajirinche tentano di approdare in Europa. Mussa Khan, forse, è passato, ma sono sempre più i suoi compagni di viaggio che perdono la vita nei meandri scuri del fiume
L’arrivo del crepuscolo spegne lo stridore metallico delle cicale, lasciando al vento il dominio della vallata. Edirne, Tracia orientale, antica Adrianopoli. E’ il mio ultimo tramonto in Turchia.
Assisto all’avvicendarsi della notte al giorno seduto in una piazzola di sosta della statale E80, che dopo meno di un chilometro va a infilarsi in territorio bulgaro. A ponente, la fila continua di chiome dietro cui precipita il sole rivela un’ansa del fiume Evros. Grecia, Turchia e Bulgaria, tutte in un unico colpo d’occhio.
Un automobilista rallenta. Nei dintorni non c’è nulla che possa attirare un passante. L’uomo, capelli bianchi e rughe impresse sulla fronte, scende dalla macchina. Dall’autoradio accesa echeggia musica turca. Senza dire una parola si avvicina. Non capisco finché non mi è vicino abbastanza da leggere nel suo sguardo: in quel momento vedo negli occhi la stessa espressione indefinita che mi avevano riservato i mercanti di Izmir, scambiandomi per un migrante.
Puntandomi il dito addosso, pronuncia parole che fugano ogni dubbio: “Afghanistan? Pakistan? ”. Resto fermo, basito. L’uomo si sforza di comunicare, ma parla solo in turco. Continua nervosamente a ripetere “Jandarma, Jandarma” indicando il fiume. Fingo di non capire, lui urla più forte: “Jandarma! ”. Poi, all’improvviso, il dito indice si trasforma, mimando una immaginaria pistola. Me la punta contro la testa: “Jandarma, boom! ”
Evros, Maritsa, Meriç. Trinomia propria d’una geografia di frontiera. Nel letto del fiume che solca questa valle scorre anche sangue. “Ogni tanto la corrente restituisce corpi. Solo quest’anno le vittime accertate sono trentotto. La polizia si limita a fotografarle e seppellirle. I migranti non hanno documenti addosso, stabilirne l’identità è praticamente impossibile.”
Centro di Edirne, sabato mattina. Nella piazzetta davanti al caravanserraglio si serve baklava, pasta croccante farcita di granella di pistacchi e melassa. Ne mangio una porzione insieme a un medico del posto, che preferisce restare anonimo. Da anni si occupa, da volontario, della questione dei migranti, offrendo loro cure gratuite e assistenza di vario tipo.
“Nell’arco di un solo anno la pressione migratoria in questa regione è cresciuta a dismisura”. Le sue parole confermano i dati forniti dall’Agenzia dell’Onu per i rifugiati: nel corso dei primi sei mesi del 2010 l’aumento del flusso ha avuto un incremento che tocca il 400%. Il medico si addentra nei particolari del suo lavoro: “A volte riscontro segni di violenza, soprattutto morsi di cani. Non è difficile immaginarne le cause: la polizia di frontiera bulgara utilizza le unità cinofile per pattugliare il confine”.
Scopro che una parte dei migranti, spaventata dal fiume o incapace di acquistare un posto sulle barche gestite dai kaçakçılar, prosegue il proprio viaggio verso l’Europa attraverso la Bulgaria. O almeno ci prova. “Per non perdersi, seguono i cavi dell’alta tensione, verso nord. Alcuni lo hanno già fatto dieci o quindici volte. Ma le speranze di successo sono basse, vengono quasi sempre respinti. E la polizia di confine non va certo per il sottile”.
Gli racconto dell’episodio del giorno prima, nella piazzola di sosta. “Si”, conferma, “anche la nostra Jandarma, non scherza. Quell’automobilista, credo, ti ha scambiato per uno delle dozzine di migranti che aspettano il buio per passare il fiume. Voleva solo metterti in guardia”.
Saliamo in macchina. Un breve tragitto basta a raggiungere una struttura militare in disuso, non lontano dal fiume. Sulla recinzione campeggia la scritta “Il Eniyet Mudurlugu geri gonderme Merkezi ”. “Questo è il centro di detenzione ed espulsione più vicino all’Evros e a suo modo è un grande rebus”, spiega il medico, mentre osserviamo le baracche allineate sotto il sole. Dalle minuscole finestre pendono stracci ad asciugare. E’ la stessa immagine che ho visto due giorni fa a Kumkapi, il centro di detenzione di Istanbul. Dentro quelle baracche decine di migranti scontano colpe più grandi di loro, pagando per errori che spesso non hanno commesso. Per alcuni di loro è imminente il rimpatrio o l’espulsione.
“Il problema”, continua il medico “è che il centro quest’anno è quasi vuoto. Solo quarantacinque persone, contro una media di più di duecento. Dato l’aumento del flusso di migranti, invece, ci si dovrebbe aspettare una situazione di sovraffollamento”.
Nel primo pomeriggio raggiungo la centrale di polizia, poco fuori città, dove riesco ad ottenere un breve colloquio con il direttore del centro. L’ufficiale, però, aggira tutte le mie domande. Quando chiedo il permesso di visitare le baracche, la questione viene abilmente evasa: “Nessun problema. Basterà ottenere un permesso del ministero dell’Interno. Lasciami i tuoi contatti e me ne occuperò personalmente”. Scadenze previste, dalle tre settimane ai tre mesi. Sto solo perdendo tempo.
Sono già sulla porta, pronto ad uscire. L’ufficiale richiama la mia attenzione: “Comunque”, dice aggiustandosi il colletto della camicia, “il flusso di migranti è in forte calo. L’ho detto anche ad alcuni tuoi colleghi francesi, qualche giorno fa. Quest’anno stiamo registrando poco passaggio”. Saluto, pensoso e me ne vado. La questione si fa più torbida delle acque dell’Evros.
Un cerchio di dodici stelle dorate su uno sfondo blu. Percorrendo il valico di frontiera di Ipsala, uno dei ponti che attraversano il fiume, spicca in lontananza l’inconfondibile stemma dell’Unione europea. Le cicale sono tornate ad appropriasi dell’aria. Dal mezzo dell’arcata il fiume si mostra finalmente per quello che è: un silenzioso invaso gonfio di acque scure. Spirali vorticose punteggiano le rive su entrambi il lati. Il sogno chiamato Europa, visto da qui, ha le sembianze di un incubo.
Per un cittadino europeo il passaggio del confine è semplice procedura, esecuzione meccanica d’un gesto ripetibile all’infinito: trovarsi su questo o su quel lato del fiume è una questione di scelta. Svogliatamente, l’agente greco sofferma lo sguardo su pagina quattro del passaporto, controllando se il volto impresso sul documento è congruente al mio. “Welcome to Greece ”.
Improvvisamente, una carrellata di immagini scuote la mente: i volti di Naqeeb, Osama, Muslim, Abdal Halek, Ahmad, Latifi, Rahmatullah e di tanti altrimuhajirin a cui non so dare un nome si accalcano confusamente davanti ai miei occhi. Penso a Mussa Khan, il cui volto ancora non conosco, se non per averlo visto tramite una webcam. Uomini colpevoli solo di avere con sé un passaporto diverso dal mio. Un senso di colpa mi accompagna nel passaggio della dogana.
“Ef caristo” . Ricambio il saluto del poliziotto. Sono in Grecia.
“La mattina presto li vedo passare proprio qui davanti, oltre la vetrina. Hanno ancora i panni zuppi, le scarpe infangate. Non parlano con nessuno. Come fantasmi, camminano verso la piazzetta e si siedono attorno alla rotatoria, finché non arriva la camionetta della polizia e li porta via. Ogni giorno la stessa storia”.
Kastanias, piccolo villaggio greco sulla frontiera. In queste zone rurali la vita scorrerebbe sempre uguale a se stessa se non fosse per l’arrivo continuo di migranti. E’ domenica mattina, dopo una nottata trascorsa lungo le rive del fiume, entro nell’unico bar aperto. Frappè e ciambella fritta. Al banco siede una signora greco-americana, sulla quarantina. “Sono tornata da New York sei anni fa e da allora lavoro qui dentro. Ogni anno, specialmente in questa stagione, ho assistito all’arrivo dei migranti. Ma da qualche mese il fenomeno è impressionante”.
Mi tornano in mente le parole di Maria, incontrata qualche giorno prima a Istanbul. “Sono gli stessi trafficanti che incoraggiano i migranti a consegnarsi alla polizia, una volta passato il fiume”. Istruito dalla guida curda, Mussa Khan deve aver fatto lo stesso. Chissà che non sia passato proprio qui davanti. Il pensiero mi assilla.
La strada verso sud porta impressi i segni caratteristici di una infrastruttura militare: a intervalli regolari l’orizzonte piano è interrotto da torrette d’osservazione, mentre camionette dell’esercito percorrono la zona in entrambe le direzioni. Il fiume è la silenziosa, inquietante presenza fissa del panorama.
“Deve chiedere l’autorizzazione al ministero dell’Interno. Solo allora potrà avere da noi le risposte che cerca”. Centrale di polizia di Orestiada, principale centro greco lungo il fiume. Nel tardo pomeriggio Georgos Salamangas, comandante della stazione di polizia, mi riceve nel suo ufficio al secondo piano. Di fronte alla richiesta di informazioni sui migranti, il suo atteggiamento non è più elastico di quello tenuto dalla suo omologo turco due giorni prima. Un muro di “no” interrompe qualsiasi tentativo di dialogo. Metto fine alla sceneggiata salutando frettolosamente.
Un sottufficiale mi scorta verso l’uscita. Ha seguito tutta la scena, in silenzio. “Il flusso che investe la Grecia è enorme,” mi rivela, “e le risorse di cui disponiamo sono limitate. Quest’anno abbiamo superato ogni record”.
“Ma dal lato turco”, ribatto, “dipingono uno scenario diametralmente opposto, parlano di fenomeno in calo”. Un’espressione rassegnata si dipinge sul suo volto. “I turchi mentono. Non hanno alcun interesse ad arginare il flusso. Anzi, permettono ai migranti di passare in Grecia, per lasciare a noi la patata bollente. Ma”, conclude ,“il fenomeno non si può negare. Ormai intercettiamo più di duecento persone al giorno”.
Mi allontano, confuso. In questa guerra sembra che i numeri siano l’arma più pericolosa. Numeri che nessuno vuole mostrare pubblicamente.
Un camion è fermo sul lato della strada. Incrocio il mio sguardo con quello del giovane autista alla guida. “Salonicco?” chiedo d’impulso. Il gesto di risposta con la mano è un chiaro invito. Un secondo e sono già seduto in cabina.
“Che fa da queste parti un giornalista?” mi chiede Orestis, dopo le presentazioni. “Una inchiesta sui migranti che attraversano l’Evros”. “Ah, allora sei venuto per raccontare la storia delle mine.” La frase mi coglie di sorpresa, ma nascondo lo stupore. “Infatti. Perché, tu ne sai qualcosa?” Mi guarda, mentre imbocca l’autostrada. Un cartello indica “Salonicco 450 km”. Dato il pesante carico che trasportiamo, ci vorranno almeno otto ore.
“Io ho fatto il militare proprio lì, nel 2008, nel filachio 7, vicino Nea Vissa. A volte, durante la notte, sentivamo le esplosioni provenire dai campi.”
Prendo il mio bloc notes e la penna. “Con calma”, gli dico, “parti dall’inizio”.(mussakhan.wordpress.com)