5° post. Distanza, viaggio e precarietà non bastano a privare i rifugiati afghani delle proprie radici. Anche a Gaziantep si riunisce la “Jirga”, il consiglio degli anziani, che siedono per affrontare il tema doloroso dell’esilio, ma anche i problemi quotidiani di chi vive di in bilico tra presente amaro e futuro incerto
L’anziano Abdal Halek sfoglia un fascicolo ingiallito. Seduta a semicerchio sul tappeto, l’assemblea dei capifamiglia assiste silenziosa.”Qui c’è tutta la mia vita da quando sono in Turchia”. Moduli, domande, certificati, ritagli, appunti. Le dita nodose si immergono tra le carte, fermandosi su un foglio intestato UNHCR: “E’ di una settimana fa.” Me lo porge. “Mi invitano a fare appello per la terza volta. Significa che non mi riconosco ancora lo status di rifugiato. Dopo sette anni.”
“Ma io”, prosegue il vecchio, “non ho più la forza di aspettare. Per anni ho atteso e sperato. Poi ho provato. Ho mandato due volte i miei figli in Grecia coi trafficanti. Sono stati arrestati, picchiati e rimandati qui. Ho provato a tornare a Teheran, ma l’Iran non è più il paese dove abbiamo vissuto per tanto tempo. Ho tentato con l’UNHCR, ma da Ankara non rispondono più al telefono da mesi.” Poi volge lo sguardo a terra. “D’ora in poi, semplicemente, non farò più nulla.”
Gaziantep, Anatolia meridionale. Tappa obbligata del mio viaggio verso Izmir alla ricerca affannosa di incrociare ancora il mio destino con quello di Mussa Khan. Confluenza di antichissime vie di transito, incrocio di cultura araba, turca, curda e persiana, l’antica Antep è una delle ventisei “città satelliti” individuate dal governo turco come luogo di residenza per i richiedenti asilo. Qui vivono dalle quindici alle venti famiglie afghane, tutte in attesa di un reinsediamento che non arriva mai.
“Sono in forte stato depressivo. Alcuni molto gravi”. Hakan, psicologo dell’ASAM (Associazione per la solidarietà con i rifugiati e i richiedenti asilo) conosce bene le situazione dei muhajirin . La sua associazione, ramificata nel paese, li assiste da anni. Lo incontro sabato mattina, dopo l’infinita notte di viaggio da Van. E’ venuto in ufficio apposta per incontrarmi, incuriosito dalla richiesta di un reporter italiano di incontrare i muhajirin.
“L’Europa, gli Stati Uniti e l’Australia hanno chiuso le porte in faccia ai rifugiati afghani”, mi dice Hakan. “A Gaziantep arrivano continuamente richiedenti asilo iracheni, e nel giro di un anno vengono reinsediati in Occidente. Gli afghani sanno che i posti ci sono, ma vedono che vengono puntualmente assegnati ad altri. Da qui nasce la loro sofferenza psicologica, si sentono abbandonati.”
Camminando verso l’Iran Bazaar, quartiere dove si concentrano le famiglie dei muhajirin , Hakan mi offre la sua interpretazione dei fatti. “Gli afghani sono difficili da inquadrare. Spesso arrivano in seguito a secondary movement , cioè dopo aver vissuto per anni in Iran o Pakistan. E’ difficile stabilire le loro identità, il loro passato, il loro eventuale coinvolgimento in attività terroristiche: l’UNHCR sa che la possibilità di ottenere il reinsediamento per un afghano è remota.” E conclude: “Per questa ragione non perdono neanche più tempo con loro. Aspettano tempi migliori. Inshalla .”
L’Iran Bazaar è il centro di gravità della comunità afghana. In questo tratto di strada stretto tra file di negozi fanno sosta ogni giorno gli autobus dei pellegrini iraniani diretti ai luoghi santi sciiti di Damasco: la moschea di Sayyidah Zaynab, figlia del primo imam sciita Alì, e quella di Sayyidah Ruqayya, riedificata nel 1985 proprio con fondi iraniani. Qui, a guardia di una improvvisata bancarella sul marciapiede, incontriamo Bismilleh, giovane capofamiglia di Mazar e Shariff. In pochi minuti una decina di muhajirin si raccolgono intorno a me, disorientati dalla presenza di un europeo interessato alle loro vicende.
Fanno domande, si scambiano opinioni. Osservano. La presentazione di Hakan non sembra sufficiente a placare la loro curiosità irruente. Alla fine è l’arrivo del vecchio Abdal Halek a sistemare tutto. Aiutato nella traduzione dal suo figlio maggiore, Muslim, mi invita a casa sua. Un seguito di capifamiglia si aggrega immediatamente.
Lentamente mi rendo conto di quanto sta succedendo. A mille miglia dall’ Afghanistan, mi appresto ad assistere ad uno dei più intimi rituali della antica cultura tribale afghana: è la Jirga , il consiglio degli anziani.
Ne è una versione ridotta, mista, improvvisata e “in esilio”, ma mantiene la sostanza e la solennità che gli spettano. Nove uomini siedono in cerchio, a gambe incrociate. Dopo le presentazioni e il tè, Abdal Halek si fa consegnare da suo figlio il fascicolo ingiallito. Ne estrae il documento dell’UNHCR, la sentenza che lo condanna all’ergastolo nel carcere a cielo aperto dell’asilo temporaneo.
E’ l’inizio di una giornata lunga e amara, in cui le parole di Naqeeb mi martellano la mente: “Quello che vedrai e sentirai non ti piacerà”.
“Omar”, dice Abdal Halek indicando uno dei presenti alla sua destra “è arrivato due anni fa con tutta la famiglia.” Militare di professione, nel 2003 si è arruolato nella polizia afghana, fino a quando i talebani lo hanno costretto a fuggire. “Da un mese e mezzo, però, la moglie e i due figli più piccoli sono scomparsi. La polizia dice che non può fare nulla. l’UNHCR non interviene.” Omar fissa il tappeto, inespressivo. I figli rimasti con lui, di cinque e sette anni, sono gli unici bambini ammessi alla riunione. Non avrebbero altro luogo dove andare.
“La verità”, continua il vecchio “è che i ‘rifugiati vulnerabili’, ad esempio una donna sola con bambini al seguito, sono gli unici che possono ottenere asilo in Europa. Perciò qualche trafficante deve averla convinta a partire illegalmente, abbandonando qui il resto della famiglia. Non sarebbe la prima volta.” Le norme restrittive adottate in Europa in fatto di accoglienza mostrano quaggiù tutta la loro disumana irrazionalità.
La conversazione si fa più partecipata. Bismilleh, al mio fianco, sfoga la sua amarezza parlando diresettlement : “I nostri ricorsi vengono rigettati di continuo, ormai non li presentiamo quasi più. Ed anche quando veniamo riconosciuti come rifugiati, nessun paese ci accoglie”. E continua: “l’UNHCR non ha alcuna fiducia in noi: all’ufficio di Ankara ci sono solo interpreti iraniani. Loro capiscono solo il darì, simile al farsi. Molti di noi, però, parlano il tagiko, il pashtu, o l’uzbeko. Il risultato è sempre lo stesso: le nostre testimonianze vengono ritenute inaffidabili.”
“Alcuni paesi come la Norvegia”, riprende Bismilleh, “danno asilo agli afghani che riescono ad arrivare fin lì illegalmente. E’ per questo che pensiamo continuamente a fuggire. Io stesso, quando avrò soldi a sufficienza, tenterò. Per Atene i trafficanti chiedono quattromila dollari a persona, da lì in poi vedrò come arrangiarmi”.
Un anno fa, nel tentativo di mandare i suoi figli in Europa, Abdal Halek ha speso novemila dollari. Ne aveva già pagati 25mila per arrivare qui insieme alla famiglia. “Solo alcuni ce la fanno. I miei sono stati arrestati su un barcone insieme ad altre 117 persone. Algerini, palestinesi, curdi, iracheni, pakistani, iraniani, somali. Ma almeno sono tornati indietro, dopo un mese di prigione. Altri invece spariscono per sempre.”
L’intera mattinata scorre al ritmo doloroso dei loro racconti. Sembra quasi che la frustrazione accumulata in anni di attesa inutile abbia trovato nella mia presenza un veicolo di espressione, un catalizzatore.
Dopo pranzo la Jirga implode in una discussione accanita. Morteza, capofamiglia di etnia uzbeka, estrae dalla tasca un foglietto, rivolgendosi a me: “Vogliamo che tu sappia cosa succede qui”.
L’appunto contiene i nomi di nove mercanti turchi dell’Iran Bazaar . Da tempo stanno cercando di imporre agli afghani la chiusura delle bancarelle, accusandoli di fare concorrenza sleale sui prezzi. Tre giorni fa hanno minacciato di morte Asif, uno dei muhajirin che più apertamente si oppone al divieto. Per dare maggiore credibilità alla minaccia hanno allegato la lista dei loro nomi. Un vero atto in stile mafioso.
“La realtà”, spiega Morteza, “è che i pellegrini iraniani preferiscono comprare da noi perché parliamo in farsi, e perché alcuni tra di noi sono sciiti, come loro”. Poi prosegue: “I mercanti non ci tollerano più. Ci hanno detto: consegnateci Asif ed andrà tutto bene. In caso contrario vi considereremo tutti colpevoli.” Poi Morteza conclude, disarmato: “Ci hanno dato poco tempo. Dobbiamo trovare una soluzione in fretta.”
Approfitto del momento per congedarmi. E’ sera ormai. Un sentimento di totale impotenza mi accompagna nel viaggio verso Izmir. Domande assillanti mi rimbombano nel cervello. Ho diritto di infilarmi nella vita di queste persone? Quanta speranza genera il mio interessamento?
I muhajirin hanno preteso che prendessi con me una copia delle loro domande di asilo. “Portale ad Ankara. A te daranno ascolto.”
A nulla è servito spiegare che la mia strada va altrove. L’importante, per loro, è mettersi in movimento, spezzare l’attesa, trovare un motivo per tirare avanti.(mussakhan.wordpress.com)
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