Prima
della riforma introdotta con la legge 40/98, l’evoluzione del fenomeno
migratorio e in particolare l’ingresso in Italia di un numero crescente di
minori in condizione irregolare, aveva reso evidenti le lacune della normativa
allora vigente, che non prevedeva la possibilità di tutelare la condizione del
minore, quando questi di fatto si trovava in Italia in violazione delle norme
sull’ingresso e il soggiorno di stranieri.
In
teoria, i minori in tali condizioni dovevano essere espulsi dal Prefetto, al
pari degli adulti, e comunque, essendo privi di permesso di soggiorno, si
vedevano negata la possibilità di accedere a quei servizi e a quelle
prestazioni cui invece, in base ai principi costituzionali e alle norme di
diritto minorile, avrebbero dovuto comunque aver diritto.
Un
notevole impulso alla ricerca di soluzioni e correttivi in questo senso era poi
venuto dalla ratifica della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo
(legge n. 176/1991).
Mentre
in alcune situazioni locali e in particolare a Torino, erano state via, via
definite linee di intervento
dell’autorità giudiziaria minorile volte a prospettare possibili
soluzioni ai diversi casi di irregolarità del minore straniero, a livello nazionale
erano state impartite disposizioni (dal Ministero dell’interno e dal Ministero
del lavoro) riguardanti soprattutto, se non esclusivamente, i minori stranieri in stato di abbandono in Italia, per i
quali l’art. 37 della legge 184/1983 stabilisce
che si applicano le norme italiane vigenti, in materia di adozione, affidamento
e provvedimenti necessari in caso di urgenza.
Ciò
consente sia di disporre nei confronti del minore l’affidamento familiare disciplinato dal Titolo I della legge
184/83, sia di avviare le procedure per l’adozione (Titolo II L. 184/83), sia ancora – secondo i casi – di
procedere alla nomina di un tutore
del minore, a seguito di intervento del Giudice Tutelare.
La
scelta dell’uno o dell’altro provvedimento dipende ovviamente sia dall’età sia
dall’effettiva situazione del minore rispetto ai suoi rapporti con i genitori o
con altre figure parentali.
Il riconoscimento, da parte del Ministero
dell’interno, del principio della
priorità dell’intervento da parte della Magistratura minorile rispetto
ai provvedimenti della pubblica amministrazione (circolare n. 32/93 del
Ministero dell’interno) aveva aperto la strada alla possibilità di concedere, a
seguito degli interventi di protezione
disposti dall’autorità giudiziaria minorile (Tribunale per i minorenni o
Giudice tutelare, secondo i casi) nei confronti di minori in stato di
abbandono, un permesso di soggiorno
provvisorio, rilasciato ai sensi dell’art. 4, comma 13, della legge
39/1990 (c.d. “legge Martelli”).
In
seguito, il Ministero del lavoro aveva definito una particolare procedura per
consentire l’avviamento al lavoro dei
minori tra i 15 e i 18 anni, titolari di permesso di soggiorno provvisorio
rilasciato a seguito di intervento disposto dall’autorità giudiziaria
(circolare n. 67/94) e con una successiva circolare (19.9.1995) aveva ancora
consentito che, al raggiungimento della
maggiore età, i minori extracomunitari in stato di abbandono, già
titolari di permesso di soggiorno, potessero essere iscritti nelle liste di
collocamento, secondo le procedure ordinarie.
Il
Ministero dell’interno (con circolare n. 29/95) aveva conseguentemente
autorizzato le questure a rilasciare in questi casi ai minori, divenuti
maggiorenni, il permesso di soggiorno
per lavoro subordinato o per iscrizione nelle liste di collocamento.
Le
procedure delineate nelle circolari emanate tra il 1993 e il 1995 non avevano
mancato di incontrare diversi problemi applicativi.
Il maniacale bisogno di norme scritte ad hoc
rendeva insicuri di tale operatività molti operatori di polizia, dei servizi e
della giustizia, disorientati da presunte lacune dell’ordinamento giuridico.
Eppure,
l’Italia aveva ratificato nel 1991 (con la legge n.165/1991) la Convenzione di
New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989[1],
che avrebbe dovuto aiutare a dissipare ogni dubbio sull’applicazione delle
disposizioni della Convenzione stessa e di altre Convenzioni internazionali,
della Costituzione italiana, del Codice Civile, della legge sull’adozione e del
Codice Penale, poste a protezione e tutela del minore straniero alla pari di
quello italiano.
A
questa ossessione di disposizioni
regolative minute si ovviò con la cosiddetta legge “Turco-Napolitano”
(legge n.40/1998, poi trasfusa nel T.U. n.286/1998), a riprova della sempre
maggiore importanza che rivestiva il fenomeno.
Assai
significativi sono alcuni principi dettati sulla condizione dei minori
extracomunitari presenti in Italia: l’inserimento fra i divieti di espulsione
di quello per i minorenni (art. 19, comma 2º); l’attribuzione delle residue
possibilità di espulsione al tribunale per i minorenni (art. 31, comma 4º); il
diritto all’unità familiare e la prevalenza, nei procedimenti relativi, del
superiore interesse del fanciullo (art. 28, comma 3º). E il successivo
regolamento di attuazione[2]
stabilì che ai minorenni non espulsi veniva rilasciato dal questore un permesso
di soggiorno “per minore età” (art. 28, comma1º lett. a).
Ciò
che né la legge né il regolamento chiarivano era cosa fare di quei ragazzi che
non potevano essere espulsi: 1) a chi erano affidati; 2) se potevano lavorare
e, soprattutto; 3) cosa succedeva loro
al compimento della maggiore età.
Risposta
solo interlocutoria venne data con il D.P.C.M. n. 535/1999, che diede le
disposizioni circa il censimento, l’accoglienza e il rimpatrio dei minori non
accompagnati; ma nulla diceva sul primo quesito; sul secondo si limitava a dire
che i ragazzi avevano i diritti alle cure sanitarie e all’inserimento scolastico; e sul terzo che
compito del Comitato per i minori stranieri era provvedere se possibile al loro
“rimpatrio assistito”.
Quest’ultima
era di fatto una formula elegante dietro la quale si nascondeva, in realtà, la
possibilità di un allontanamento dal territorio dello stato deciso in via
meramente amministrativa senza che l’interesse del minore potesse essere fatto
valere seriamente da lui o da chi per lui nel procedimento[3]:
una “espulsione mascherata”, venne chiamata.[4]
L’applicazione
pratica della legge da parte degli organi pubblici interessati fu del tutto
orientata ad una gestione meramente amministrativa dei diritti e delle
aspettative di quei minori: i tribunali per i minorenni negavano anch’essi la
competenza[5];
i ministeri coinvolti negavano la possibilità di accesso al lavoro[6];
le questure interpretavano restrittivamente la nozione di minore affidato,
escludendo i minori non accompagnati[7];
il Comitato per i minori stranieri, sia pure con lentezza, disponeva i
rimpatri; soprattutto, al compimento della maggiore età arrivava, senza
discriminare fra i minori ormai integrati e quelli sbandati o inseriti nelle
organizzazioni criminali, l’espulsione.
Questo
diede vita da un lato ad una forte pressione delle associazioni e delle persone
che si occupavano dei minori stranieri, deluse per l’esito dei loro sforzi e
preoccupate per le conseguenze che la clandestinizzazione aveva sui ragazzi
seguiti sino a diciotto anni alla luce
del sole (perdita dei punti di riferimento abitativi e affettivi, contatti con
le organizzazioni criminali per avere documenti falsi, ecc.)[8];
dall’altro lato ad un ripensamento degli organi giudiziari i quali, posti di
fronte alla devastazione delle vite di quei minori che si rischiava e si
realizzava con quegli orientamenti sopra descritti, cominciarono con sempre
maggiore frequenza a ritenersi competenti
e ad emanare provvedimenti che interpretando in modo “costituzionalmente
orientato” la normativa permettevano di estendere anche a minori non
accompagnati i benefici previsti per i minori figli o affidati[9].
A
sua volta la passata maggioranza, che si era fortemente impegnata ad emanare
una nuova legge sull’immigrazione, sul tema dei minori non accompagnati era
stretta fra, da un lato, la necessità di coerenza con le premesse della riforma
e quindi con l’obiettivo di impedire (o
di mostrare di volere impedire) ogni ulteriore inserimento di stranieri nella
comunità nazionale, e , dall’altro lato, le spinte forti degli imprenditori che
chiedevano manodopera e delle associazioni che richiedevano certezza per il
futuro di questi ragazzi che in qualche modo da tempo seguivano o avevano in
affidamento (senza dimenticare che, va da sé, ciò avrebbe portato anche
finanziamenti per i corsi che comunque erano fatti o da fare).
La
quadratura del cerchio è stata trovata trasformando di fatto i minori in
lavoratori: in sintesi, secondo la cosiddetta legge “Bossi – Fini”, i minori
non accompagnati già presenti potranno rimanere in pratica solo come
lavoratori, qualificati da due anni di corso.
E
questo è estremamente coerente con tutto l’impianto della nuova legge, che imposta
tutto il problema dell’immigrazione sotto l’unico punto di vista dell’utilità
economica dell’arrivo e della permanenza dello straniero: il titolo stesso di
arrivo e permanenza dello straniero: il titolo stesso di arrivo e permanenza si
chiama “contratto di soggiorno”; lo straniero può arrivare solo se ha già un
posto di lavoro[10], se perde il
lavoro viene espulso più facilmente e velocemente di prima; la possibilità di
richiamare i familiari è ristretta e la stessa permanenza del lavoratore
diviene più precaria, sottoposta a più numerosi rinnovi del permesso di
soggiorno…
Un
altro e connesso problema: quello del consolidamento del diritto del minore a
permanere in Italia[11],
soprattutto dopo il raggiungimento della maggiore età.
Su
questo solo punto è intervenuta la legge di modifica, la cosiddetta
“Bossi-Fini”, disponendo che il permesso di soggiorno può essere rilasciato, se
non sia precedentemente intervenuta una decisione di rimpatrio del Comitato per
i minori stranieri e sempreché, al momento in cui diventano maggiorenni, i
minori non accompagnati siano presenti sul territorio dello Stato da non meno
di tre anni e abbiano seguito per un periodo non inferiore a due anni un
progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato
registrato.
L’ente
gestore non solo deve essere comunque iscritto nel registro degli enti che
svolgono attività in favore degli immigrati previsto dal regolamento di
attuazione del T.U. n. 286/1998, ma deve anche avere rappresentanza nazionale.
Pare
abbastanza singolare che i (molti) seri istituti religiosi o associazioni a
base locale o al massimo regionale che negli anni – di fatto e da soli – hanno affrontato l’emergenza minori non siano
considerati idonei: anche perché dovendo curare l’inserimento e l’integrazione
sul territorio, poteva farlo meglio un’associazione ben radicata nel territorio
stesso che una rappresentanza nazionale ma in certe situazioni con scarsa
presenza locale.
[1] Si consideri in particolare gli artt.2
(principio di non discriminazione), 3 (il prevalere sempre del migliore
interesse del minore), 20 (diritto a protezione ed aiuti speciali del bambino
temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare) e 22
(ricerca dei genitori, per l’eventuale ricongiungimento).
[2] D.P.R. n. 394/1999.
[3] Per un’analisi completa di questa disciplina,
vedi L. Miazzi, “Il rimpatrio assistito del minore straniero: ancora un caso di
diritto speciale?”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2000, n.2.
[4] G. Turri, “I minori stranieri non
accompagnati”, in Minorigiustizia, 1999,3.
[5] Pretura Mantova, sez. distaccata di
Castiglione delle Siviere, decreto 15 febbraio1999, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1999, n.1.
[6] Ministero dell’interno – Dipartimento della
pubblica sicurezza, Circolare n. 300/C/2000/785/P/12.229.28/I Div. del 13
novembre 2000; si trova pubblicata in Diritto,Immigrazione
e cittadinanza, 2000, n.4.
[7] Vedi
in proposito all’orientamento delle Questure: Atti del seminario “Minori
stranieri non accompagnati e irregolari, tra accoglienza e rimpatrio”, Torino
4 luglio 2000, a
cura di Elena Rozzi.
[8] Vedi
la lettera congiunta 14 gennaio 2002 delle associazioni Save The Children
Italia, Caritas Italiana, Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale
Italiana, Comunità di Sant’Egidio, ACLI, Federazione Chiese Evangeliche
Italiane – Servizio Rifugiati e Migranti, ARCI, ICS (Consorzio Italiano di
Solidarietà), ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione),
Terre des Hommes Italia, indirizzata “Alla cortese attenzione del senatore
Boscetto - Relatore in Commissione
affari costituzionali sul disegno di legge A.S. 795” .
[9] Vedi L. Miazzi, “I giudici minorili e la tutela dei minori stranieri
nell’applicazione della L. n.40/1998”, in Diritto, immigrazione e
cittadinanza, 2001, n.1.
[10] Tralasciamo in questa sede che questa è una
pura mistificazione della realtà: nessun imprenditore assume un lavoratore
italiano senza averlo mai visto, figurarsi uno straniero che è ancora
all’estero: quelli chiamati saranno, come sempre, quelli che già c’erano e
lavoravano in nero, e che vengono fintamente allontanati per farli rientrare
regolarmente.
[11] Il comma 1-bis dell’art.32, introdotto dalla
legge “Bossi-Fini” n.189/2002, prevede che: “Il permesso di soggiorno di cui al
comma 1 può essere rilasciato per motivi di studio, di accesso al lavoro ovvero
di lavoro subordinato o autonomo, al compimento della maggiore età, sempreché
non sia intervenuta una decisione del Comitato per i minori di cui all’art.33,
ai minori stranieri non accompagnati che siano stati ammessi per un periodo non
inferiore a due anni in un progetto di integrazione sociale e civile gestito da
un ente pubblico o privato che abbia rappresentanza nazionale e che comunque
sia iscritto nel registro istituito presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 52 del decreto del Presidente della
Repubblica 31 agosto 1999, n.394”.