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Il petrolio passa noi no - Francesco Piobbichi - Mediterranean Hope
“Ci rubano il lavoro” però “non fanno niente tutto il giorno”.
“Stanno negli hotel a cinque stelle” però “dormono in mezzo alla strada”.
“Il freddo tempra, gli fa bene”
“Hanno tutto: il wi-fi, i telefonini” ma “rubano nelle case”.
“Il nostro Stato li ha abituati a caserme di lusso”, (cosa vorrà mai dire, chissà) ma “loro” - sì sempre loro – “ci rubano le case popolari”.
E poi: “Le case popolari ai clandestini, anche se non è dato sapere come abbiano fatto ad iscriversi alle graduatorie essendo irregolari.
Stanno in ciabatte perché è: “loro uso e costume” ma “hanno vestiti firmati, cibo e cure gratuite”.
“Se stavano al loro paese almeno era caldo e mangiavano quello che piace a loro. Vanno rimpatriati tutti”.
E poi, “Cosa vogliono? Le scimmie sono senza ciabatte”.

Infine terremotati e migranti.
“I terremotati italiani dormono al freddo nelle tende, mentre questi schifosi parassiti di falsi profughi dormono in hotel al caldo”.
“I terremotati come vivono? Quanti gradi ci sono adesso lì da loro? Ci dobbiamo preoccupare della nostra gente, no di questi intrusi approfittatori arroganti , non fanno altro che lamentarsi pretendere e ribellarsi.”

Per non parlare degli insulti a chi ha scritto l’articolo: “Scribacchina, testa di cazzo, pennivendola, vai a fare altro, ignorante, cazzara, andate voi a tenerli al caldo”.

Questi sono una parte dei cinquecento commenti all’articolo pubblicato su La Stampa il 14 gennaio, sulle condizioni di vita dei minori stranieri non accompagnati, ammassati, da agosto in una palestra a Reggio Calabria. Un collage di frasi, opinioni e stereotipi, illogici e incoerenti: “Ci rubano il lavoro” però “non fanno niente tutto il giorno”, “Stanno negli hotel a cinque stelle” però “dormono in mezzo alla strada”-, che sempre di più si leggono e si ascoltano. In qualsiasi contesto e circostanza.

Non destano sorpresa ma certamente incutono timore per la deriva che queste parole possono avere nei comportamenti quotidiani e negli atteggiamenti futuri. E dovrebbero interrogarci, in primis, a noi giornalisti, che ricopriamo un ruolo nel raccontare, fare informazione e creare coscienza.

Avrei dovuto NON scrivere le storie di chi ha attraversato il deserto, è passato dalla Libia, è stato torturato, picchiato e oggi si ritrova rinchiuso in una palestra da mesi, senza assolutamente niente?
Avrei dovuto ignorare le voci di persone che – esattamente come altri milioni – partono, lasciano la famiglia e il proprio paese, per cercare di costruirsi un futuro migliore da un’altra parte?
Avrei dovuto parlare anch’io dei terremotati – persone - che stanno al freddo al gelo, invece dei minori stranieri – sempre persone – che stanno anche loro al freddo e al gelo?

Per me la sofferenza umana non ha colore né nazionalità. Gli ultimi saranno sempre gli ultimi: terremotati, migranti, sfrattati o precari. Vomitare la propria rabbia e le proprie frustrazioni contro il più debole è la soluzione più semplice e immediata ma serve solo a scatenare una guerra tra poveri. Ultimi contro ultimi, sfruttati contro sfruttati. E’ forse allora giunto il momento che anche noi giornalisti iniziamo a spiegare con un altro linguaggio la complessità dei fenomeni, perché la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero ma nella comprensione delle sfumature. Dobbiamo approfondire, raccontare le cause e porre domande.

Se una persona non possiede una casa, sarà forse colpa di chi è più povero di lui? O sarà responsabilità di chi dovrebbe costruire più alloggi popolari?

Se una persona ha perso il lavoro, sarà forse colpa di chi lavora nei campi per quindici euro al giorno, senza tutele sindacali e sanitarie?
O sarà forse responsabilità, anche di quelle imprese italiane, che hanno scelto di andare a produrre all’estero per guadagnare di più, sfruttando il minor costo della manodopera?

Se c’è un terremoto, sarà colpa di chi arriva via mare? O sarà responsabilità di chi ha scelto di non proteggere il territorio, di costruire e spalmare quintali di cemento armato per i più biechi e meschini profitti?

Se siamo così stufi di LORO e vogliamo rimpatriarli, allora mi domando, perché non proviamo lo stesso sdegno quando le nostre imprese vendono armi che serviranno a fomentare altre guerre? Non vogliamo più profughi? Allora iniziamo a far parte di un movimento per la pace.

Perché la stessa rabbia e indignazione non la riversiamo anche verso quelle multinazionali straniere che acquisiscono il cosiddetto “made in Italy”? Perché non proviamo lo stesso sdegno quando le nostre imprese vendono armi che serviranno a fomentare altre guerre?

Perché accettiamo che fondi finanziari e immobiliari cinesi, delle isole Cayman, o di altri paradisi fiscali esteri acquistino le colline della Toscana, i palazzi storici romani e le coste sarde? Perché gli stranieri vanno bene quando entrano all’interno delle boutique di Prada, Armani e Gucci?

Perché sono ricchi. Gli stranieri vanno bene quando sono ricchi. Questa è la verità. Se i migranti sono poveri ci fanno schifo. Non è questione di nazionalità. E’ questione di classe.


(giornalista freelance con base a Beirut - Libano)



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