Corpi. Uomini giovani, giovanissimi, anche ragazzi (i cosiddetti ‘minori’), famiglie talora, con bimbi, anche piccoli (una volta abbiamo incontrato un bimbo di cinque mesi). Magrissimi, laceri, affamati. Mostrano una moltitudine di piccole ferite, nella parte inferiore del corpo, quasi sempre infette, talora più gravi, segni spesso di colpi inferti. I piedi sono gonfi, con vesciche, lesioni. Le scarpe a pezzi, i vestiti sporchi e puzzolenti.
Quelli che sono in condizioni meno gravi indicano in genere la presenza di ‘passeur’ o ‘smuggler’: anche fra i migranti c’è una differenza di classe.
Questi corpi sono la rivelazione di qualcosa che tutti sanno e tutti ignorano. Si può dire, senza temere l’enfasi: la rivelazione del carattere distruttivo del nostro modo di vivere.
Più precisamente, quello che colpisce chi vuole incontrare questi corpi – appaiono come fantasmi in mezzo al rumore e al caos del traffico cittadino, in mezzo all’indifferenza della ‘gente’ - è la loro condizione di non-persona o di sub-persona, in una gradazione che muove verso il vero e proprio annientamento sociale e anche fisico.
Tempo fa, abbiamo raccolto un ragazzo, seduto su un marciapiede vicino alla questura, con indosso solo la camicia dell’ospedale, i piedi avvolti in contenitori di plastica azzurra, letteralmente invisibile per la gente che passava.
Chi sceglie di farsi coinvolgere deve leggere con le sue mani la scrittura corporea di una vulnerabilità, che può spingersi fino alla morte. In centinaia sono morti o scomparsi, anche senza lasciar traccia. Di queste perdite irreparabili apprendiamo anche dai loro racconti. Peraltro, tutti sappiamo che il Mediterraneo è diventato una grande tomba - nell’indifferenza generale e nei miserabili dibattiti fa Stati.
I migranti di cui noi ci occupiamo provengono dalla cosiddetta Rotta balcanica, che comincia al confine tra Grecia e Turchia, imbuto in cui vanno ad accumularsi genti in fuga da distruzioni di ogni genere, nel nostro caso, soprattutto da quella vasta area che va dall’Afghanistan al Pakistan allo Yemen, dall’Iran alla Siria, ma anche al Maghreb, persino dal Bangladesh...
Una piccola associazione di persone, dotate del privilegio della cittadinanza, va tutti i giorni (in numero variabile) nella piazza della stazione di Trieste per incontrare i migranti-profughi, verso le sei del pomeriggio (orario estivo!).
I profughi arrivano alla spicciolata dopo 10-20 giorni di viaggio dalla Bosnia: il numero varia, in media, da cinque-sei a venti-trenta, con punte anche più alte. Passano per questa grande aiuola alberata davanti alla stazione, in maggior parte per andare a prendere il treno verso il mitico Nord dell’Europa: Milano e via verso i confini con la Francia, quello marittimo o quelli alpini – sono questi i passaggi più accessibili.
Sono sfuggiti o hanno superato mille pericoli, fra cui, particolarmente grave, la violenza della polizia croata, che giunge fino alla tortura. A seguire la polizia slovena e, dulcis in fundo, quella italiana, che, da qualche tempo, effettua respingimenti in Slovenia di una parte delle persone catturate nei pressi del confine. La Slovenia a sua volta li ricaccia in Croazia che, dopo averli spogliati e malmenati, li rigetta in Bosnia. Là, nel cantone Una-Sana, si chiude il cerchio di violenza e umiliazione del sistema confinario europeo.
I migranti, i profughi riescono sempre a riaprirlo. Abbiamo incontrato persone che hanno fatto venti e più volte quello che chiamano il game, in cui mettono in gioco tutto, anche la vita.
Oggi, in Bosnia, la situazione sta degenerando ogni giorno di più: UNHCR e IOM (ONU) sembrano non accorgersene. Le autorità locali reagiscono alla cieca. La mancanza di un progetto è evidente e criminale.
Il nostro gruppo – Linea d’Ombra - offre un primo intervento di tipo sanitario – essenziale curare le piccole ferite da viaggio accidentato, graffi, tagli, vesciche, anche effetti di cadute, talora ferite anche più gravi. Siamo coadiuvati da un gruppetto di giovani Dottoresse e Dottori, la cui associazione si chiama Strada Si.Cura. Poi vengono le scarpe, preziosissime, mezzo primario per chi ha messo la propria vita nell’andare. Infine indumenti. Prima ancora, cibo: sempre ci sono persone digiune da giorni.
Il nostro impegno, però – vogliamo chiarire - non è umanitario.
L’umanitarismo, che assolve compiti che spetterebbero alle Istituzioni pubbliche, è complice della loro inefficienza; peggio, delle loro politiche di discriminazione e di violenza. Mantiene il sistema. Nasconde lo sporco sotto il tappeto.
Il senso del nostro impegno non consiste nello elargire gratuitamente un’assistenza indispensabile, che nessun altro elargisce.
Vuole costruire un rapporto con queste persone, riconoscendo pienamente, soprattutto con la concretezza viva dell’incontro, la loro dignità, il diritto negato di andare dove vogliono. Tutto ciò attraverso un fare che deve necessariamente partire dai loro bisogni, primari come quelli di un infante.
Quando abbiamo visto dei bimbi giocare in piazza con i giocattoli portati per loro, apparentemente dimentichi dei crudeli disagi del game, abbiamo pensato che la nostra presenza quotidiana in quel luogo aveva il senso che volevamo dargli.
Pratichiamo la politica principalmente come rapporto di cura, perché in tale contesto è quello che si deve fare. Ma questa cura si inserisce in una lotta per il riconoscimento di un diritto che nessuno Stato può riconoscere, perché nega il diritto dello Stato a decidere chi può vivere, chi può sopravvivere, chi può morire
Ancor prima delle parole, viene il contatto fra corpi, evidente soprattutto nell’intervento di cura medica, ma che qui si allarga subito al significato più ampio di cura del corpo come singola soggettività, di questo corpo qui, che tocchi e che ti guarda.
Una cura che ricorda quella che si pratica con gli infanti, ma l’infanzia non è un periodo da superare e dimenticare, è il periodo in cui la soggettività prende forma. Il confine vuol far perdere forma alla soggettività dei migranti, trattandoli come animali nocivi. Noi cerchiamo di restituirgliela, per quel che possiamo.
Come nell’infanzia, anche in questo caso, il corpo dice più di quanto non possano le parole.
Noi vogliamo praticare la politica come cura dell’altro, come azione che produce socialità: qui, subito, in questo luogo dove c’incontriamo, partendo da queste persone cui non viene riconosciuta dignità d’esistere, come, peraltro, accade per la maggior parte degli abitanti sulla terra.
Per questo i migranti profughi che arrivano oggi in Europa non sono soltanto l’ultima forma di migrazione, ma sono l’indice dello stato del mondo, della terra, che chiede un cambiamento radicale, pena un cammino inesorabile verso la degradazione della vita.
Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi
Foto: Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi