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Foto Francesca Del Giudice
Quanto arrivo nell’ex stazione ferroviaria di Belgrado, una fila interminabile di uomini è in attesa del pranzo, disposti ordinatamente uno davanti all'altro e avvolti nelle coperte grigie donate da UNHCR. I volontari di Hot Food Idomeni, gruppo di ragazzi e ragazze provenienti da tutta Europa, dalle 12.30 alle 14.30 distribuiscono l'unico pasto al giorno ai migranti che stazionano lì, nell'inferno di Belgrado, consistente in una zuppa calda di verdure e legumi e qualche fetta di pane.
Subito mi rendo conto della presenza massiccia di minori, provenienti per lo più dall’Afghanistan e dal Pakistan. Nella fila c’è un ragazzino che trema di freddo, non ha la coperta e ha perso la sua giacca, altri sono con gli infradito e mi chiedono se posso donare loro delle scarpe. Io sorrido e mi informo subito se ci sono donatori, persone che portano beni. I migranti mi dicono di no, e solo dopo qualche ora scopro che, oltre all'aiuto di piccoli gruppi di cittadini attivi, i migranti sono davvero abbandonati a loro stessi, senza alcuna prospettiva, senza alcun supporto. Un aspetto che mi sconcerta particolarmente è che la maggior parte degli abitanti di Belgrado è ignara di questa situazione: nonostante i media ne stiano parlando di continuo, nonostante stiano a pochi minuti dal centro della città, c'è un totale disinteresse a conoscere, un'assenza di informazione e passaparola. Mi sfugge la motivazione.
Faccio un giro nei due capannoni principali: dismessi, nel giro di qualche mese sono diventati delle vere e proprie discariche. Ci si trova di tutto, da scarti di cibo al fango, da lattine ad escrementi, dai topi ai piccioni. E proprio all’interno di questi stabili, dalla fine della scorsa estate, vivono migranti in transito, che scappano dai loro paesi per raggiungere l’Europa, "the safe place". Incontro Yarouf, un ragazzo di 17 anni, in viaggio con il cugino, suo coetaneo, mi dice che tre anni fa è stato in Italia "Sono andato a Bari, a Brindisi, a Foggia, a Roma e a Milano. Sono andato poi in Francia, a Parigi. Guarda - mostrandomi le foto sul suo telefono - questo era il mio tutor francese e qui quando siamo andati sulla Tour Eiffel". Poi, con un po' di tristezza, mi dice "alla fine del viaggio sono tornato a casa, in Afghanistan, perché avevo un negozio, che ora non esiste più" e mi fa vedere quello che era il suo lavoro, uno store di gioielli, in perfetto stile medio orientale. Lui, ragazzo con una vita normale, aveva deciso di viaggiare in Europa tre anni fa. La stessa Europa che oggi gli volta le spalle. La stessa Europa che non vuole accoglierlo.
Continuo il mio giro, immersa in quella nube di fumo causata dai fuochi perennemente ardenti, unica fonte di calore che riesce a spezzare il gelo che cade su Belgrado. Incontro occhi, tanti occhi di chi ha sofferto ma che è ancora in piedi, occhi di chi preserva ancora la propria dignità, occhi di coraggio e determinazione, che ricambiano il mio sguardo. Si crea subito un'intesa, si fa presto a scambiare parole: tutti mi chiedono come stia, e alla mia domanda "e tu come stai?" c'è chi mi dice "sì, sto bene", chi inizia subito a raccontare la propria storia: molti sono arrivati da mesi, chi da 3 chi da 4 chi da 6. C’è chi ha provato la notte precedente ad attraversare la frontiera, con la polizia ungherese pronta a rispondere con violenza, chi invece chiede come è la situazione alla frontiera e quando l’Europa deciderà di farli passare. Dopo poche ore, mi si avvicina un ragazzo, esile esile e con gli occhi tanto vispi. Mi sorride, gli chiedo il nome e l'età. Lui è Salamola, 15 anni, afghano, capelli lunghi, appiccicati al viso, "ieri notte ho provato ad attraversare la frontiera" - mi racconta - "la polizia mi ha spruzzato qualcosa negli occhi e sono svenuto. Ora ho un grande problema agli occhi", lo accompagno fuori, a prendere un po' di aria fresca. L'istinto di abbracciarlo è forte, quel ragazzino è uno dei tantissimi minori che viaggiano da soli: partito dalla sua casa, vuole raggiungere un parente in Germania. Affabile, si crea immediatamente un legame speciale tra noi due.
Foto TheGuardian
Mi invita a vedere la sua "doccia" (uno dei tanti barili che i migranti riempiono di acqua presa chissà dove) e con fare ironico mi chiede "è bella, vero?" e io, spontaneamente sarcastica, gli dico che è la più bella doccia che abbia mai visto! Lui ride, mentre io mi sento terribilmente impotente. Dopo due anni di attivismo con i migranti, dopo due anni che mi occupo di accoglienza, con l'associazione Baobab Experience, mi rendo conto di quanto i 60mila migranti che son passati a Roma siano stati e siano fortunati ad aver incontrato persone come noi, un gruppo di volontari che si dedica a loro, andando oltre al mero assistenzialismo, facendoli sentire parte integrata e integrante di un gruppo. A Belgrado, la vita scorre lenta, soprattutto per il clima rigido. Molti preferiscono trascorrere il loro tempo intorno al fuoco a chiacchierare, immagino del loro passato e chissà forse dei loro sogni, altri fanno delle passeggiate nei dintorni, vanno al market ad acquistare qualcosa da mangiare e da bere, oppure, specialmente i più piccoli, passano del tempo a sfidarsi a Tochmdjangi, il gioco con le uova che consiste nel riuscire a rompere il guscio dell’uovo dell’avversario con il proprio uovo. Prima di andare via incontro di nuovo il piccolo Mowgli, Salamola, che mi invita a vedere la sua stanza. È pazzesco come questo ragazzino di 15 anni riesca ad essere sempre sorridente e positivo, nonostante viva in quel luogo disumano. Vado con lui, mi mostra il suo “letto”: un angolo di un quadrilatero delimitato da assi di legno. In quello stesso spazio dormono altre 5 persone, ognuna delle quali si è ritagliato lo spazio necessario per allungare almeno i piedi. La mattina seguente torno al campo, vedo un gruppo di persone intente a parlare con dei referenti di CRPC (Crisis Response and Policiy Center): stanno distribuendo un foglio di carta che riporta la notizia di un centro a Obrenovac, a 20 minuti da Belgrado, dove è possibile avere cibo, vestiti, doccia, letto e assistenza medica. Per primi verrebbero trasferiti proprio i minori e i migranti con evidenti problemi di salute. “Freedom of movement” è scritto a caratteri cubitali: è proprio questo che blocca i migranti a voler andare nei centri istituzionali, il non poter ripartire quando vogliono, il non potersi spostare, perché bloccati, registrati nel posto in cui non vogliono rimanere.Molti sono scoraggiati, mi chiedono se è giusto andare, cosa ne penso. Rispondo che secondo me devono almeno provarci, è un posto al chiuso, possono almeno dormire in un letto, cambiarsi i vestiti, farsi una doccia. C'è chi si lascia convincere, chi resta dell’idea di non andare. Cerco Salamola, voglio salutarlo per l'ultima volta: mi dice, tenendo lo spazzolino in mano, che è il momento della doccia. Contento, si avvia verso il suo barile e mi dice “ci vediamo dopo”. Prima di andare via, un ragazzo mi ferma e mi chiede "cosa pensi di tutto questo?", non riesco a trovare la parola giusta e commento con un "penso che sia incredibile". Lui mi ringrazia, mi stringe le mani e mi sorride.

Francesca Del Giudice


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I Minori Stranieri non Accompagnati

Minori non Accompagnati, dimenticati al gelo di Belgrado.

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