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Foto Francesca Del Giudice
Quanto arrivo nell’ex stazione ferroviaria di Belgrado, una fila interminabile di uomini è in attesa del pranzo, disposti ordinatamente uno davanti all'altro e avvolti nelle coperte grigie donate da UNHCR. I volontari di Hot Food Idomeni, gruppo di ragazzi e ragazze provenienti da tutta Europa, dalle 12.30 alle 14.30 distribuiscono l'unico pasto al giorno ai migranti che stazionano lì, nell'inferno di Belgrado, consistente in una zuppa calda di verdure e legumi e qualche fetta di pane.
Subito mi rendo conto della presenza massiccia di minori, provenienti per lo più dall’Afghanistan e dal Pakistan. Nella fila c’è un ragazzino che trema di freddo, non ha la coperta e ha perso la sua giacca, altri sono con gli infradito e mi chiedono se posso donare loro delle scarpe. Io sorrido e mi informo subito se ci sono donatori, persone che portano beni. I migranti mi dicono di no, e solo dopo qualche ora scopro che, oltre all'aiuto di piccoli gruppi di cittadini attivi, i migranti sono davvero abbandonati a loro stessi, senza alcuna prospettiva, senza alcun supporto. Un aspetto che mi sconcerta particolarmente è che la maggior parte degli abitanti di Belgrado è ignara di questa situazione: nonostante i media ne stiano parlando di continuo, nonostante stiano a pochi minuti dal centro della città, c'è un totale disinteresse a conoscere, un'assenza di informazione e passaparola. Mi sfugge la motivazione.
Faccio un giro nei due capannoni principali: dismessi, nel giro di qualche mese sono diventati delle vere e proprie discariche. Ci si trova di tutto, da scarti di cibo al fango, da lattine ad escrementi, dai topi ai piccioni. E proprio all’interno di questi stabili, dalla fine della scorsa estate, vivono migranti in transito, che scappano dai loro paesi per raggiungere l’Europa, "the safe place". Incontro Yarouf, un ragazzo di 17 anni, in viaggio con il cugino, suo coetaneo, mi dice che tre anni fa è stato in Italia "Sono andato a Bari, a Brindisi, a Foggia, a Roma e a Milano. Sono andato poi in Francia, a Parigi. Guarda - mostrandomi le foto sul suo telefono - questo era il mio tutor francese e qui quando siamo andati sulla Tour Eiffel". Poi, con un po' di tristezza, mi dice "alla fine del viaggio sono tornato a casa, in Afghanistan, perché avevo un negozio, che ora non esiste più" e mi fa vedere quello che era il suo lavoro, uno store di gioielli, in perfetto stile medio orientale. Lui, ragazzo con una vita normale, aveva deciso di viaggiare in Europa tre anni fa. La stessa Europa che oggi gli volta le spalle. La stessa Europa che non vuole accoglierlo.
Continuo il mio giro, immersa in quella nube di fumo causata dai fuochi perennemente ardenti, unica fonte di calore che riesce a spezzare il gelo che cade su Belgrado. Incontro occhi, tanti occhi di chi ha sofferto ma che è ancora in piedi, occhi di chi preserva ancora la propria dignità, occhi di coraggio e determinazione, che ricambiano il mio sguardo. Si crea subito un'intesa, si fa presto a scambiare parole: tutti mi chiedono come stia, e alla mia domanda "e tu come stai?" c'è chi mi dice "sì, sto bene", chi inizia subito a raccontare la propria storia: molti sono arrivati da mesi, chi da 3 chi da 4 chi da 6. C’è chi ha provato la notte precedente ad attraversare la frontiera, con la polizia ungherese pronta a rispondere con violenza, chi invece chiede come è la situazione alla frontiera e quando l’Europa deciderà di farli passare. Dopo poche ore, mi si avvicina un ragazzo, esile esile e con gli occhi tanto vispi. Mi sorride, gli chiedo il nome e l'età. Lui è Salamola, 15 anni, afghano, capelli lunghi, appiccicati al viso, "ieri notte ho provato ad attraversare la frontiera" - mi racconta - "la polizia mi ha spruzzato qualcosa negli occhi e sono svenuto. Ora ho un grande problema agli occhi", lo accompagno fuori, a prendere un po' di aria fresca. L'istinto di abbracciarlo è forte, quel ragazzino è uno dei tantissimi minori che viaggiano da soli: partito dalla sua casa, vuole raggiungere un parente in Germania. Affabile, si crea immediatamente un legame speciale tra noi due.
Foto TheGuardian
Mi invita a vedere la sua "doccia" (uno dei tanti barili che i migranti riempiono di acqua presa chissà dove) e con fare ironico mi chiede "è bella, vero?" e io, spontaneamente sarcastica, gli dico che è la più bella doccia che abbia mai visto! Lui ride, mentre io mi sento terribilmente impotente. Dopo due anni di attivismo con i migranti, dopo due anni che mi occupo di accoglienza, con l'associazione Baobab Experience, mi rendo conto di quanto i 60mila migranti che son passati a Roma siano stati e siano fortunati ad aver incontrato persone come noi, un gruppo di volontari che si dedica a loro, andando oltre al mero assistenzialismo, facendoli sentire parte integrata e integrante di un gruppo. A Belgrado, la vita scorre lenta, soprattutto per il clima rigido. Molti preferiscono trascorrere il loro tempo intorno al fuoco a chiacchierare, immagino del loro passato e chissà forse dei loro sogni, altri fanno delle passeggiate nei dintorni, vanno al market ad acquistare qualcosa da mangiare e da bere, oppure, specialmente i più piccoli, passano del tempo a sfidarsi a Tochmdjangi, il gioco con le uova che consiste nel riuscire a rompere il guscio dell’uovo dell’avversario con il proprio uovo. Prima di andare via incontro di nuovo il piccolo Mowgli, Salamola, che mi invita a vedere la sua stanza. È pazzesco come questo ragazzino di 15 anni riesca ad essere sempre sorridente e positivo, nonostante viva in quel luogo disumano. Vado con lui, mi mostra il suo “letto”: un angolo di un quadrilatero delimitato da assi di legno. In quello stesso spazio dormono altre 5 persone, ognuna delle quali si è ritagliato lo spazio necessario per allungare almeno i piedi. La mattina seguente torno al campo, vedo un gruppo di persone intente a parlare con dei referenti di CRPC (Crisis Response and Policiy Center): stanno distribuendo un foglio di carta che riporta la notizia di un centro a Obrenovac, a 20 minuti da Belgrado, dove è possibile avere cibo, vestiti, doccia, letto e assistenza medica. Per primi verrebbero trasferiti proprio i minori e i migranti con evidenti problemi di salute. “Freedom of movement” è scritto a caratteri cubitali: è proprio questo che blocca i migranti a voler andare nei centri istituzionali, il non poter ripartire quando vogliono, il non potersi spostare, perché bloccati, registrati nel posto in cui non vogliono rimanere.Molti sono scoraggiati, mi chiedono se è giusto andare, cosa ne penso. Rispondo che secondo me devono almeno provarci, è un posto al chiuso, possono almeno dormire in un letto, cambiarsi i vestiti, farsi una doccia. C'è chi si lascia convincere, chi resta dell’idea di non andare. Cerco Salamola, voglio salutarlo per l'ultima volta: mi dice, tenendo lo spazzolino in mano, che è il momento della doccia. Contento, si avvia verso il suo barile e mi dice “ci vediamo dopo”. Prima di andare via, un ragazzo mi ferma e mi chiede "cosa pensi di tutto questo?", non riesco a trovare la parola giusta e commento con un "penso che sia incredibile". Lui mi ringrazia, mi stringe le mani e mi sorride.

Francesca Del Giudice


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I Minori Stranieri non Accompagnati

Minori non Accompagnati, dimenticati al gelo di Belgrado.

Foto Francesca Del Giudice Quanto arrivo nell’ ex stazione ferroviaria di Belgrado , una fila interminabile di uomini è in attesa del p...
Semira vive in Sicilia e racconta come i due piccoli, insieme a una donna, siano stati squartati e lasciati nel deserto prima di imbarcarsi. Orrore documentato da alcune foto. «I mercati finali sono Usa, Israele e Golfo persico. Abbiamo denunciato in tutte le sedi, ma non mi sembra si sia fatto abbastanza», spiega don Zerai.
«Io gliel'avevo detto di non partire insieme ai bambini, di lasciarli dai suoi genitori, ma per lei era troppo grande il desiderio di venire in Italia insieme ai suoi figli». Mentre parla, Semira, nome di fantasia, scorre sul suo smartphone le foto dei suoi nipoti. Uccisi in Egitto - insieme a un'altra donna - prima di imbarcarsi per la Sicilia, squartati da trafficanti senza umanità, derubati degli organi, ricuciti alla buona e lasciati su una spiaggia del Paese nordafricano. «Vivevano in Kenia, il più piccolo aveva due mesi, il più grande un anno e mezzo, la stessa età di mia figlia - racconta Semira, giovane somala che vive in Sicilia da due anni -. Con loro c'era anche un terzo bambino di sei anni, che è riuscito a mettersi in salvo con la mamma». Sono stati altri migranti, compagni di viaggio dei fratellini dilaniati, a fotografare i corpi e a inviare le immagini al papà, cugino di Semira. «Tramite l'ambasciata keniana in Egitto è riuscito a far rientrare le salme - continua la donna -. Prima però, in ospedale, hanno accertato che gli avevano tolto gli organi».
La storia raccontata a MeridioNews da Semira ha trovato spazio sui media africani lo scorso aprile. Ma è solo uno dei moltissimi casi di migranti uccisi per incrementare il ricchissimo mercato della vendita illegale di organi. Un business che - come riporta in una recente inchiesta La Repubblica affidandosi a una stima della Global Financial Integrity, la fondazione statunitense tra i più importanti centri mondiali di analisi sui flussi finanziari illeciti - vale 1,4 miliardi di dollari all'anno. Sarebbe illegale circa il 10 per cento dei 118mila trapianti che annualmente si fanno a livello mondiale. «L'Egitto è il Paese dove questi trafficanti agiscono di più e su cui abbiamo raccolto più denunce, ma bisognerebbe approfondire anche la situazione inSudan e in alcuni Paesi dell'Africa occidentale». A parlare è don Mussie Zerai,sacerdote eritreo che vive a Roma da 24 anni. Con la sua agenzia Habeshia, fornisce ai rifugiati assistenza legale, orientamento e aiuto. «Siamo venuti a sapere di uccisioni per espianto degli organi a partire dalla fine del 2009 - spiega -, da molto più tempo questo traffico riguarda i quartieri poveri del Cairo, ma fino a quel momento non sapevamo che avesse preso di mira anche i migranti in transito da quelle parti. Abbiamo raccolto testimonianze secondo cui persone bisognose vengono avvicinate e gli viene offerto di cedere un rene a 10-20mila euro. Per poi essere rivenduto a molto di più in alcuni Paesi ricchi». Ma con l'incremento del flusso di migranti, i donatori costretti si sono moltiplicati, anche a costo di togliergli la vita. «Tra il 2009 e il 2013 sono state uccise tremila persone solo nella penisola del Sinai (al confine tra Egitto e Israele ndr) - continua don Zerai - molti di questi venivano prelevati vivi, squartati, ricuciti alla meglio e lasciati morire nel deserto. L'espianto avviene dentro camper allestiti ad ambulanza o mini ospedali,grazie a medici compiacenti che vengono dalle città».
Una macabra prassi che ha coinvolto anche i nipoti di Semira. «Hanno usato come scusa che uno dei bambini piangeva troppo - racconta la donna somala -, lo hanno buttato giù dal mezzo su cui viaggiavano. Le foto che hanno scattato altri migranti sono poi state pubblicate su un giornale africano» (LE FOTO POTREBBERO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITà). «Quanti corpi saranno seppelliti sotto la sabbia del deserto! - riflette don Zerai - E l'Occidente sa perché bravi giornalisti, soprattutto americani e inglesi, hanno documentato questo orrore». Proprio gli Stati Uniti sono uno dei Paesi dove gli organi arrivano a destinazione. «Gli Usa, Israele e i Paesi del golfo persico. Sono questi i mercati finali - spiega il sacerdote -, sono indicati anche nei report del dipartimento di Stato americano. Qualche anno fa negli Stati Uniti sono stati arrestati alcuni trafficanti di organi che facevano la spola tra Il Cairo e New York».
Non è stata solo una parte della stampa a rendere testimonianza. Ci sono anche le denunce dell'associazione Habesha e quelle di pochi migranti che, giunti in Europa, hanno avuto il coraggio di rivolgersi alle istituzioni, senza però ottenere risposte concrete. «Abbiamo denunciato in tutte le sedi istituzionali: dal parlamento italiano a quello europeo - sottolinea don Zerai -, hanno provato a fare qualcosa con molta fatica, ma non mi sembra che si siano sforzati più di tanto. Anche in Italia abbiamo accompagnato qualche rifugiato dalla polizia per denunciare, ma la maggior parte delle volte ci è stato risposto che non potevano fare niente perché il reato non era stato commesso in territorio italiano». Nei mesi scorsi Nuredin Wehabrebi Atta, il primo pentito della rete internazionale che si occupa del traffico di migranti dall'Africa, ha riferito ai magistrati di Palermo di notizie simili: «Mi è stato raccontato che le persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani, che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15mila dollari». Al momento non ci sono notizie o testimonianze che dimostrino che questo business abbia ramificazioni anche in Sicilia. Ma c'è un dato che inquieta chi si occupa di questi temi. È il numero di minori stranieri non accompagnati scomparsi: cinquemila solo in Italia tra il 2014 e il 2015. Di questi quasi duemila hanno fatto perdere le proprie tracce in Sicilia. «Siamo molto preoccupati, perché una parte può finire nelle mani di trafficanti di organi», denuncia don Zerai. osa fare dunque per provare ad arginare il fenomeno? «Seguire i flussi di denaro per prima cosa - risponde sicuro - lo abbiamo detto all'Europol, seguite i trasferimenti che vengono fatti dall'Occidente ai Paesi a rischio. E poi creare un sistema di protezione nei Paesi di transito: in Sudan, Niger o Ciad sono sorti immensi campi profughi dove vivono 20-30mila disperati, un bacino perfetto per i trafficanti che vanno lì a pescare le loro vittime. Infine - conclude il sacerdote eritreo - servono corridoi umanitari, canali legali per emigrare, visti di ricongiungimento più facili. Se fosse così, queste persone non sarebbero così disperate da rischiare di finire nelle mani di questi mercanti di morte».
Fonte: MeridioNews;
Autore: Salvo Catalano







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«I miei nipoti uccisi in Egitto per rubargli gli organi» Business sui migranti, timore per minori scomparsi

Semira vive in Sicilia e racconta come i due piccoli, insieme a una donna, siano stati squartati e lasciati nel deserto prima di imbarcars...
Esplode la giungla di Calais: rabbia dei camionisti e speranze dei profughi

REPORTAGE. Viaggio nel campo informale più grande d’Europa dove da settimane si sfiorano le diecimila presenze. Ieri cittadini e camionisti hanno bloccato l’autostrada. Il governo in difficoltà promette lo smantellamento per tappe. Ma intanto la vita nel campo va avanti salvata dal lavoro dei volontari

http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/514584/Esplode-la-giungla-di-Calais-rabbia-dei-camionisti-e-speranze-dei-profughi


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Esplode la giungla di Calais: rabbia dei camionisti e speranze dei profughi

Esplode la giungla di Calais: rabbia dei camionisti e speranze dei profughi REPORTAGE. Viaggio nel campo informale più grande d’Europa...
C’è un’immagine che Giovanna Di Benedetto difficilmente si toglierà dagli occhi: quella di due fratellini ghanesi, sbarcati una decina di giorni fa al porto di Trapani. «Lui compirà 13 anni a settembre. Si prendeva cura in maniera amorevole della sorellina di 6 – spiega la referente di Save the Children –. Sono orfani, soli al mondo». Una vicenda limite, certo, ma che racconta uno dei cambiamenti in atto lungo le rotte migratorie che collegano la sponda sud del Mediterraneo all’Italia: la sempre maggiore presenza di ragazzini piccolissimi.

«La quota più consistente è formata da 16-17enni, ma arrivano sempre più spesso ragazzini di 14 anni, 13 anni e anche più piccoli» sottolinea Ganda Cascio, psicologa e coordinatrice di una delle équipe dell’ong "Terre des Hommes" attive in Sicilia. Un’emergenza nell’emergenza, perché nel 2016 il numero dei minori non accompagnati ha registrato una crescita impressionante. In base alle stime di Save the Children dal 1° gennaio al 31 agosto 2016 sono sbarcati in Italia 15.300 minori soli. Nel 2015, il conteggio si era fermato a quota 12.300. Vengono soprattutto dal Gambia (circa 1.900 in base ai dati del ministero dell’Interno, aggiornati al 31 luglio), Eritrea (1.800 minori), Egitto (1.795), Nigeria, Guinea, Somalia e Costa d’Avorio. Si mettono in viaggio per le ragioni più diverse.

I somali fuggono da un Paese ancora segnato da una lunga guerra civile, gli eritrei e i gambiani vogliono lasciarsi alle spalle feroci dittature. C’è poi chi fugge dalla povertà e si mette in viaggio alla ricerca di un futuro migliore, talvolta con il sostegno dei familiari come avviene per molti minori egiziani. «Ma c’è un filo conduttore che accomuna le storie di questi ragazzi: le violenze che hanno subito in Libia, lo choc per aver assistito impotenti alla morte di un amico, di un compagno di viaggio – spiega Giovanna di Benedetto –. L’attraversamento del Mediterraneo è un altro elemento traumatico: molti non sanno nuotare e sono costretti a viaggiare su imbarcazioni fatiscenti, stipati all’inverosimile».

Esperienze che lasciano segni profondi. Cicatrici sul corpo e nell’anima. «Molti soffrono di incubi, disturbi del sonno, rivivono le esperienze traumatiche che hanno vissuto», spiega Ganda Cascio. Proprio per dare una risposta a queste situazioni, gli operatori di "Terre des Hommes" offrono supporto psicologico ai minori ospiti in diversi centri di accoglienza tra le province di Siracusa e Catania. «Ci sono poi casi di minori che soffrono di ansia o depressione a cause delle lunghe permanenze nei centri di accoglienza e dell’incertezza sul proprio futuro», aggiunge. Proprio questa incertezza spinge migliaia di minori a lasciare i centri di accoglienza: chi rimane per mesi in un limbo senza fare nulla, senza corsi di italiano né progetti di integrazione, talvolta decide di rimettersi in viaggio.

Diversa la situazione per eritrei, somali ed etiopi, che vedono l’Italia come una tappa di passaggio verso il Nord Europa dove sperano di riabbracciare i propri familiari. Avrebbero la possibilità di ottenere il ricongiungimento per via legale, ma i tempi lunghi li scoraggiano. «Oggi, per ricongiungere un minore con i suoi parenti in un altro Paese europeo serve circa un anno. Inoltre, la normativa europea non permette il ricongiungimento con i familiari oltre il secondo grado, come gli zii o i cugini», spiega Manuela De Marco, dell’ufficio immigrazione di Caritas Italiana.

Una norma sicuramente pensata per tutelare il minore, ma che mal si adatta a quei contesti di "famiglia allargata" così diffusi in molte culture. E così migliaia di ragazzini e di adolescenti si rimettono in viaggio. Tramite le reti di connazionali si dirigono a Nord oppure tornano ad affidarsi ai trafficanti. Una situazione che espone questi ragazzini a ulteriori rischi di sfruttamento da parte di organizzazioni senza scrupoli.

Fonte: Avvenire.it

Profughi, rischio fuga per i minori

C’è un’immagine che Giovanna Di Benedetto difficilmente si toglierà dagli occhi: quella di due fratellini ghanesi, sbarcati una decina di ...
Recentemente è stata pubblicato il risultato dell’indagine sul campo compiuta da MHUB lungo la rotta migratoria del mediterraneo centrale. L’indagine è basata su 122 interviste compiute tra il 3 marzo e il 24 giugno 2016 presso centri di accoglienza nelle città di Roma, Torino ed Asti.
L’indagine è un’istantanea sui profili, le intenzioni e le esperienze di coloro che migrano e che sono arrivati da poco sul suolo italiano.
Naturalmente visti i numeri minimi del campione non possono essere statisticamente rappresentativi dell’intera popolazione migrante, ma forniscono strumenti per capire e affrontare il processo migratorio.

I dati:
  •   L’ 80% degli intervistati non aveva originariamente intenzione di venire in Italia. Molti sono giunti in Italia perché scappati dalla Libia, oltre che dal loro paese di origine, quando l’insicurezza è aumentata, e circa il 25% dichiara di essere in transito attraverso il nostro Paese.


  •    I 2/3 degli intervistati non si aspettava un viaggio duro e faticoso come quello appena compiuto.  Se ne fosse stato a conoscenza, il 52% avrebbe compiuto ugualmente il viaggio, il 44% no e il 4% è indeciso. Il dato suggerisce che molti partono senza valutare i rischi del viaggio e la conoscenza degli stessi li avrebbe portati a fare delle scelte differenti.


  •           Tra coloro che non sarebbero partiti,  in caso di consapevolezza dei rischi del viaggio, per la maggior parte sono gli Etiopi, i Gambiani e i Senegalesi. Mentre tra coloro che sarebbero partiti comunque vi sono gli Eritrei, gli Ivoriani e i Maliani


  •           Il 57% degli intervistati non ha cercato alcuna informazione circa il viaggio prima di partire; Il 35% ha parlato con amici, parenti, e conterranei migrati all'estero, l’8% si è informato attraverso i Social Media  (Facebook e Twitter principalmente).


  •       Tra coloro che si sono informati attraverso i social media (8%), i due terzi non sono stati sorpresi dalle difficoltà del viaggio perché  sapeva cosa li aspettava. Al contrario, tra coloro che hanno ottenuto informazioni parlando con altre persone, una sola persona su dieci è stata preparata e informata circa i possibili i rischi del viaggio.


  •        La maggior parte degli Eritrei ha riferito di essere a conoscenza dei rischi del viaggio prima della partenza, infatti sono anche tra coloro che in maggioranza hanno cercato informazioni prima di partire.


  •        Il costo del viaggio è estremamente variabile. Dipende molto dal percorso, dalla nazionalità e dalla capacità di pagare. In generale, gli Eritrei pagano di più rispetto agli Etiopi, anche se il percorso è lo stesso. Molti hanno pagato fino a 12.000 dollari per il viaggio dall'Eritrea fino all'Italia. Il riscatto richiesto dai contrabbandieri per essere liberati variava da 1.500 dollari a 5.000 dollari.


  •     Alcuni intervistati eritrei hanno riferito che i contrabbandieri, lunga la rotta del Sahara che li portava verso le coste libiche, ha controllato se tra i numeri di telefono vi erano numeri Europei o Americani; in tal caso il costo del viaggio era di certo più costoso perché si partiva dal presupposto che il migrante avrebbe potuto chiedere di pagare ad amici e parenti all’estero.


  •          Il 90% ha subito abuso lungo il viaggio. Solo un intervistato, che ha seguito la rotta Egiziana non ha subito abusi. Questo dato conferma la pericolosità della rotta libica, ma non ci dice che la rotta Egiziana sia sicura.


  •           Tutti gli intervistati eritrei ed etiopi vorrebbero aderire al programma di Relocation e/o chiedere asilo in altro paese Europeo. In particolare, il 32% vorrebbe andare in Olanda (cenfermando il trend 2015), il 24% in Germania, l'8% in Gran Bretagna e il 24% in Danimarca, Svezia, Svizzera, e Francia.




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Lungo la Rotta del Mediterraneo Centrale. Indagine sul campo.

Recentemente è stata pubblicato il risultato dell’indagine sul campo compiuta da MHUB lungo la rotta migratoria del mediterraneo central...
Ho da poco passato 5 giorni tra Belgio e Francia, qui a due passi, ma mi sento come se avessi fatto il giro del mondo..
uno di quei viaggi in cui man mano si avvicina la partenza ti chiedi continuamente chi te l'abbia mai fatto fare di aderire.. come se dovessi superare le colonne d'Ercole.
Quante volte ho pensato di non andarci? Perché è chiaro che in un viaggio come questo  già prima di partire senti che qualcosa lascerai.. qualcosa di certo e rassicurante, di comodo e sicuro.. preconcetti, immagini edulcorate, paure. E’ un po’ come decidere di togliere degli abiti caldi e comodi non sapendo bene quali altri vestiti troverai.
Accoglienza è la parola che mi ha accompagnato.. a dire il vero è la parola che mi accompagna da ottobre, da quando ho iniziato a lavorare nel progetto di accoglienza richiedenti asilo politico della cooperativa Ruah di Bergamo. Accoglienza è ciò che ho riscoperto grazie ai miei compagni di viaggio, ma soprattutto grazie ai migranti che  ho incontrato.
Viaggio a Calais e dintorni: la sua Giungla.
Calais è luogo che si costruisce, si distrugge ma poi rinasce.
Calais è sede di illegalità e legalità.
Calais è posto di grande conflitto e di estrema solidarietà.
Calais è luogo di approdo e di passaggio.
Calais è emblema di povertà e di ricchezza.
Calais è posto di sofferenza senza rassegnazione.
Calais trasuda coraggio e determinazione.
Tutta questa vita, mille anni luce dall'essere contraddittoria, fa di Calais un luogo estremamente contemporaneo: allo stesso modo in movimento e  in attesa.
Calais, la sua Giungla, non si trasforma solo per essere costruita su suolo sabbioso, in continuo movimento, le dune oltre le quali traguardare la Manica e oltre questa il sogno, la Gran Bretagna.
Calais cambia con i suoi abitanti.. in fermento, vivi, curiosi.. essi hanno un solo obiettivo: essere di passaggio.           Un passaggio che però è attesa brulicante.

Con gli occhi desiderosi di scambiare, interrogare, indagare.

Con gli occhi capaci di accogliere, di scherzare.

Con lo sguardo desideroso di incontrare.

Ditemi voi, io non posso capire come sia possibile non ascoltare.

Negozi, ristoranti, dentisti, scuole, chiese, moschee, panifici, abitazioni, per non dire profumi, suoni, emozioni..

Non stavo in  Francia qualche passo indietro?

Sentirsi straniero.. una minoranza.. cosa dicono? Dove vado? ..non sai dove andare, non sai con chi parlare, non sai come muoverti.  Fino a quando qualcuno ti accoglie.. uno sguardo, un sorriso, una domanda.. mille domande.. su me??..sì, domande su di me! ..ma come.. voi vi fate curiosi di me a casa mia, l'Europa ma contemporaneamente a casa vostra, la Giungla?
E in base a quale criterio questa è casa mia o casa vostra? Secondo quale diritto questa è Giungla e non più Francia?
E così è stato un attimo sentirsi stranieri in terra europea, per poi ritrovarsi, tra degrado ambientale e profonda dignità umana. Passare il confine di ciò che è conosciuto e rassicurante e ritrovarsi in mille e più mondi insieme, sconosciuti.. Eritrea, Sudan, Armenia, Iraq, Pakistan, Afghanistan.. e infine trovarne uno unico, grazie a loro:
la dignità umana.. la vedi, la riconosci, ti fa dire: "Sono sicura: ci siamo già incontrati!".
Ti fa sentire a casa negli occhi di qualcun altro.

Accoglienza, la loro.
Perché non possiamo pensare che questo suolo -mai fermo- sia nostro, per come lo vogliamo attraversare, tutti noi abitanti e abitati di dignità umana?
Ditemi, perché abitare in Europa non è un diritto invece che un privilegio?
Ho lasciato paure per trovare dignità: la mia, con il desiderio di capire ancora un po’ ; la loro, con il desiderio di un futuro migliore laddove si trova il loro sogno.
La nostra, di esseri umani.



Alessia Zucchelli

Vivo a Bergamo dove sono educatrice dal 2001; ho una laurea in Scienze dell’Educazione con indirizzo interculturale  e da qualche tempo ho incontrato l’esperienza dell’accoglienza diffusa dei richiedenti asilo come operatrice dell’accoglienza per la cooperativa Ruah e la cooperativa Alchimia di Bergamo. Da qui il bisogno di approfondire il fenomeno migratorio contemporaneo sia attraverso lo studio, su cui ho in parte orientato l’attenzione presso la Facoltà di Scienze Pedagogiche dell’Università di Bergamo, sia con l’esperienza sul campo per riflettere, approfondire, partecipare. 







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Viaggio a Calais e Grand Synthé tra i migranti: suggestioni

Ho da poco passato 5 giorni tra Belgio e Francia, qui a due passi, ma mi sento come se avessi fatto il giro del mondo.. uno di quei via...
Lunedì 6 giugno, ultimo giorno del nostro viaggio. Ci incontriamo nella Parrocchia di Saint Pierre con Veronique, una volontaria presso Secours Catholique.

Veronique ci ha raccontato la sua esperienza a contatto con i migranti: ha deciso di aprire le porte della sua casa a coloro che ne avessero bisogno. Ha ospitato molti migranti richiedenti asilo e “irregolari”: si era formato un tacito accordo tra lei e la polizia. Lei però rischia di essere accusata di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. “Chi te lo fa fare?”, le abbiamo chiesto. “Io la prima volta che li ho visti, li ho amati tutti indistintamente. Non so perché, ma li ho amati”. Un chiaro esempio di esperienza di Vangelo per la Comunità di Calais, ma anche per tutti noi.

Siamo partiti poi per Bruxelles, dove abbiamo incontrato Loredana Marchi, operatrice presso il centro “Foyer”. Il centro di integrazione, che ha una matrice cattolica e protestante, ha due pilastri educativi: la scuola e la formazione delle donne migranti. Tuttavia ci si è resi conto di come la sola educazione alle donne non bastasse: l’emancipazione della donna non faceva altro che creare delle separazioni e dei divorzi all’interno della famiglia. Quello che si sta cercando di creare è anche un posto in cui gli uomini possano provare delle attività “femminili”, come cucinare e cucire, per far loro capire che non esistono mansioni da uomini e mansioni da donne. L’arma attraverso cui si vuole educare è il dialogo.

Loredana ci ha lasciati dopo il nostro brevissimo incontro con queste parole: “non imitate il modello educativo di Foyer. Costruitene uno nel vostro territorio secondo le disponibilità e le esigenze del popolo migrante”.

L’ultimo incontro prima della partenza è stato con il segretario episcopale della commissione della migrazione in Belgio, Padre Mark Butaye. Ci ha spiegato come molte parrocchie di Bruxelles si siano attivate per poter ospitare migranti che hanno fatto la richiesta d’asilo. Non solo, anche molte famiglie hanno deciso di aprire le loro porte. I clandestini, tuttavia, non sono tollerati in Belgio: vengono rimandati in poschissimo tempo nel loro paese d’origine. La Chiesa belga si sta battendo perché il rientro possa essere allungato il più possibile (magari per poter finire l’anno scolastico) e quindi partire con un bagaglio scolastico e culturale più ampio.

“Accogliere vuol dire prendersi tutto in carico, come il buon samaritano” ci ha raccontato. Questo vuol dire non solo che dobbiamo conoscere la sua storia e il suo passato, ma che se vogliamo veramente accoglierlo, dobbiamo “farci carico di tutta la sua famiglia, i suoi amici e tutte le persone che verranno dopo”. Un’accoglienza a 360 gradi.



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Accoglienza e Integrazione

Lunedì 6 giugno, ultimo giorno del nostro viaggio. Ci incontriamo nella Parrocchia di Saint Pierre con Veronique, una volontaria presso Se...
preparazione della colazione nel campo di Calais
Sabato 4 giugno. Dopo tanti incontri, dopo tante informazioni, abbiamo deciso di agire. Ci siamo divisi in due gruppi, un gruppo è andato al campo di Dunkerque e l’altro alla Jungle. I nostri compiti erano differenti (chi doveva consegnare i pasti, chi pulire le docce, chi far da mangiare, chi consegnare i vestiti), ma lo scopo era uno solo: cercare di conoscere alcune persone (perché non dimentichiamoci che prima di essere migranti, sono persone) che vivono là; capire la loro situazione, la loro storia e cercare di far strappare loro un sorriso. Abbiamo parlato molto con loro, soprattutto afghani ed eritrei, e abbiamo sentito le loro storie: da chi sta cercando di raggiungere Dover, a chi sta richiedendo asilo in Francia perché stanchi di saltare sui camion, a chi è costretto ritornare in Italia per colpa delle impronte.
Abbiamo notato come l’Inghilterra sia venerata: pensano che si possa trovare lavoro in brevissimo tempo, di essere accolti a braccia aperte, di ottenere l’asilo in pochissimo tempo. Insomma, l’Inghilterra è la nuova El Dorado.
Confrontandoci rispetto alle varie esperienze, abbiamo capito come la loro vita fosse in fila: in fila per la doccia, per la colazione, per lavare i vestiti, per i pasti. Se di notte cercano di scappare per raggiungere l’Inghilterra, di giorno sono in fila per cercare di ottenere un piatto caldo.
Smistamento dei vestiti presso il campo di Dunkerque
 Dopo questa mattinata “lavorativa”, abbiamo incontrato Philippe, creatore del blog “Passeur d’Hospitalité”. Questo blog ha la funzione di informare, di dare una visione differente rispetto a quella che offre già lo Stato. Ciò vuol dire anche documentare gli aspetti che il giornalismo francese tende ad oscurare: la violenza della polizia e le grandi difficoltà amministrative per la richiesta d’asilo.
Il nostro incontro con Philippe.

Philippe ci ha raccontato come la situazione migratoria che vive Calais sia molto spesso frutto di una mediatizzazione (così come in Italia): se ne parla quando le notizie fanno più scalpore, dipingendo i migranti come delinquenti; si dipinge una realtà in maniera estremamente superficiale, senza cogliere quelli che sono i meccanismi reali che stanno alla base.
L’intento del blog è quello di avere da un lato un’azione informativa e intellettuale con l’intento di muovere le masse e dall’altro  proporre un’azione pratica e concreta. Questo è anche quello che vogliamo portare a casa da questo incontro: non solo proporre concretezza nelle nostre azioni, ma cercare anche di catturare l’attenzione del popolo civile affinché possa nascere un’azione politica.




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Regno Unito: la nuova El Dorado

preparazione della colazione nel campo di Calais Sabato 4 giugno. Dopo tanti incontri, dopo tante informazioni, abbiamo deciso di agire...
Il filo spinato che circonda il campo di Calais
Venerdì 3 giugno, secondo giorno di viaggio. Entriamo per la prima volta nel campo di Grande Synthe, comune della città di Dunkerque, grazie all’aiuto di Hortense, operatrice di Medici Senza Frontiere (MSF). Il campo è il frutto di una proficua collaborazione tra il Comune di Grande Synthe, Damien Carème, e MSF.
Da giugno 2015 a settembre 2015 il numero dei migranti è aumentato in maniera esponenziale, da 700 a 2800. Il comune ha deciso di agire, ha capito che era il momento di soccorrere quei migranti che dormivano sotto le piante, che erano costrette a camminare nel fango più profondo. Ha deciso quindi di rivolgersi allo stato: è possibile avere dei finanziamenti per costruire un campo in cui i migranti possano avere accesso all’acqua, al cibo e all’elettricità? Lo Stato non solo non ha offerto questo finanziamento, ma ha anche proposto di cacciare via tutti quei migranti, in quanto irregolari. La municipalità non riusciva a sopportare questa distinzione così discriminatoria tra cittadini regolari e i clandestini: siamo tutte persone e in quanto persone abbiamo dei diritti. Il comune ha deciso, quindi, di continuare con il suo progetto: il sindaco ha chiesto una mano a MSF per la realizzazione di questo campo. Il 12 gennaio sono partiti i lavori e sono terminati due mesi dopo circa. Il costo totale della struttura è di 3 milioni e mezzo (1 milione e mezzo del comune e 2 milioni di MSF).
MSF e il comune hanno deciso di adottare una politica del “Free Entry”: tutti possono entrare liberamente, non ci sono state né perquisizioni né richieste di lasciare le impronte. Tutti si devono sentire accolti. Accesso libero vuol dire anche che molte associazioni e molti privati possono entrare per aiutare i migranti: distribuiscono beni di prima necessità e forniscono un valido aiuto psicologico, soprattutto alle persone che hanno delle gravi ferite che hanno bisogno di parlare e di raccontarsi.
Anyway I have hope, un messaggio di speranza nel campo di Grande Synthe

Quando siamo entrati, il campo era vuoto e spento: “dove sono le persone?” ci siamo chiesti. “Stanno dormendo nelle tende” ci ha risposto Hortence. Eppure non siamo entrati di notte, era intorno alle 10. “Stanno dormendo perché come ogni notte cercano di salire sui camion per poter raggiungere l’Inghilterra”, ci spiega Hortense dopo aver visto le nostre facce stranite. Elena, una volontaria italiana che adopera presso la scuola del campo, ci ha spiegato: “Un giorno è entrata una bambina. Puzzava tantissimo di alcol. Sicuramente l’hanno sedata, per poterla far dormire e riuscire dunque a salire sul camion”.
Dopo quest’esperienza così forte e toccante, siamo andati a trovare un collaboratore del sindaco di Grande Synthe, Philippe Druesne, che ci ha spiegato la storia del comune e come questa ha influito sulla costruzione del nuovo campo. Dunkerque ha una popolazione migrante da anni, in quanto 2 o 3 generazioni fa chi ci abitava era proveniente da paesi stranieri (circa il 98%). Questo ha facilitato molto l’accettazione della popolazione dei migranti e la successiva costruzione del nuovo campo. Non ci sono mai stati grossi litigi o manifestazione nei loro confronti, ma accettazione e tolleranza. Questo ovviamente non è avvenuto a Calais, dove un’amministrazione estremamente conservatrice ha favorito la chiusura mentale e la non-accettazione dei migranti; anzi, vengono ritenuti dei criminali, se non dei terroristi. La paura più grande è che questa ghettizzazione (del campo di Dunkerque, ma anche e soprattutto del campo di Calais) si trasformi in discriminazione e violenza.
Dopo un panino veloce, siamo andati a trovare l’associazione “Secours Catholique”, la Caritas Francese. Ci hanno ospitato non solo gli operatori, ma anche un ventina di migranti che ci hanno accolto con grande gioia. È stato bello avere uno scambio di idee, di informazioni e di attività che noi a Bergamo e loro a Calais compiono di fronte al tema della migrazione.
La Giungla, così viene denominata il campo di Calais, contiene 4000 migranti. Il compito principale di Secours Catholique è l’assistenza primaria (distribuzione di coperte, vestiti, beni alimentari) e consulenza psicologica. Inoltre, offrono consulenza a tutte le persone che vogliono richiedere l’asilo in Francia: danno consigli su ciò che c’è da fare e, quando è necessario, fanno anche da mediatori tra gli avvocati (in tutto sono 10) e i migranti richiedenti asilo.
La chiesa ortodossa costruita nella Giungla

Secours Catholique, inoltre attua un progetto denominato “Famille d’accueil”: intorno al territorio di Calais ci sono circa 100 famiglie disposte ad ospitare per un breve periodo migranti che hanno bisogno di allontanarsi dalla Giungla. Oltre a queste famiglie la Caritas francese offre un centro d’accoglienza per persone che hanno bisogno di riflettere sul proprio futuro. L’intento principale di queste attività è di fare famiglia, di collaborare e di rimanere uniti anche nelle difficoltà.
Il pomeriggio si è concluso con l’intervento di qualche giovane migrante, che hanno espresso la loro immensa gratitudine per quello che facciamo, ma ha lamentato come noi fossimo dei pesciolini in un oceano immenso: la realtà che hanno visto in Italia non è frutto di ospitalità, di cura e di accoglienza, anzi, di violenza da parte della polizia e assenza di assistenze mediche.
È stato molto toccante osservare come la passione e la solidarietà dominassero questi scambi di esperienze. Nessuno sembrava arrabbiato: un clima di rispetto e di accettazione reciproca era alla base di ogni intervento. 
Dopo aver ascoltato con grande attenzione gli operatori di Secours Catholique, siamo entrati nella Jungle.
 La differenza con il campo di Grande Synthe è palese: l’ambiente è molto più dinamico, movimentato; nessuno era fermo. Troviamo inoltre la presenza di molte attività commerciali: si è costruita una città all’interno della città. Non solo, vi sono biblioteche, librerie, una chiesa e una moschea. Citando Chiara, l’assistente dell’On. Spinelli: “è incredibile come la resilienza umana funzioni e adoperi in situazioni di completa povertà e miseria”.


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Anyway, we have hope

Il filo spinato che circonda il campo di Calais Venerdì 3 giugno, secondo giorno di viaggio. Entriamo per la prima volta nel campo di G...

Oggi siamo partiti.
 

Prima di raccontare del nostro viaggio, è meglio raccontare chi siamo noi. Siamo un gruppo molto eterogeneo, un gruppo che ha vissuto delle esperienze diverse: vi sono due sacerdoti che da anni si stanno battendo per i diritti dei migranti, due educatrici che sono a contatto con 4 coppie di migranti, un assessore ai servizi sociali la cui amministrazione sta ospitando 5 ragazzi profughi, una ragazza universitaria che sta scrivendo la tesi sulla situazione di Calais e altre persone che sono interessate alla tematica della migrazione e che grazie a questa esperienza vorrebbero approfondirla.

Prima tappa: Bruxelles. Dopo aver preso due pullmini e dopo aver pranzato, siamo arrivati all’Europarlamento. Qui ci ha accolto Chiara de Capitani, assistente dell’On. Barbara Spinelli (rappresentante del partito politico dei Socialisti), che si occupa di asilo politico, migrazione e terrorismo. Dopo una breve descrizione del nostro gruppo, le abbiamo iniziato a parlare della nostra storia. In modo particolare, le abbiamo riferito del nostro progetto di accoglienza di 5 giovani profughi all’interno del nostro comune: i ragazzi si troveranno molto presto con un terzo diniego, il quale li renderà invisibili, illegali, dei veri e propri clandestini. “Come ci dobbiamo comportare? Come deve agire il Comune sapendo che avrà degli irregolari all’interno del proprio territorio?”: sono domande a cui il Questore e il Prefetto non hanno saputo rispondere e speravamo che la giurisdizione europea potesse colmare questi nostri interrogativi.
Purtroppo non è così: la giurisdizione europea non ha voce in materia, la tematica del “dopo” è di competenza statale.
Dato questo problema la domanda sorge spontanea: che potere ha l’UE? O meglio ancora, esiste un’UE politica? Probabilmente no. L’Unione europea è nata ed è rimasta tutt’ora come un trattato economico ma non ha ancora trovato una stabilità ed un equilibrio politico. La sua gestione è in mano a grandi potenze, come l’Inghilterra, la Francia e la Germania. Chiara ci diceva che su questione economiche (come l’agricoltura, la pesca, la caccia…) il parlamento si trova pienamente coeso, cosa che non succede in temi politici come quelli della migrazione.
Quanto i problemi che si discutono in Europarlamento sono problemi del popolo? Abbiamo sentito il Parlamento molto distante e lontano da noi, non capace di risolvere problemi con cui noi abbiamo a che fare quotidianamente. È un’istituzione molto giovane (le prime elezioni sono state effettuate nel 1976, ha quindi 30 anni) ma già incapace di risolvere queste problematiche. L’UE è una neonata fragile e insicura, che ha ancora bisogno di essere allattata e accudita.
Tuttavia Chiara, in un contesto così disastroso, ci ha dato un segno di speranza: continuiamo a lottare nella nostra piccola società civile, continuiamo a far politica, continuiamo a fare quello in cui crediamo.
All’interno delle istituzioni europee insieme a Chiara de Capitani.



Nel pomeriggio inoltrato ci siamo diretti a Calais, dove abbiamo incontrato Claire, segretaria dell’associazione Salam (acronimo di “sosteniamo, aiutiamo, lottiamo e agiamo per i migranti”). Salam si occupa di offrire i bisogni primari (cibo, vestiti, acqua, doccia e toilettes) ai migranti  del campo di Calais e di Dunkerque che stanno attendendo di oltrepassare la Manica per raggiungere Dover. Ci ha colpito moltissimo la tenacia, la passione e la grinta della volontaria: una vita passata in aiuto di questi uomini e di queste donne, perché, come afferma lei stessa: “credo nell’umanità. Siamo tutti esseri umani”.
Calais non ospita migranti da qualche annetto, ma ha una grande storia di migrazione. Nel 1999 il partito socialista ha deciso di accogliere in strutture più organizzate e umane tutti i migranti, i quali erano arrivati intorno ai 500. Nel 2002 il numero si è triplicato (più di 1500): Sarkozy, allora ministro degli interni, tuttavia, ha deciso di togliere tutte le tende, pensando così di eliminare il problema della migrazione. Ma ovviamente i migranti sono rimasti e si sono accampati nelle dune, sotto gli alberi, nella miseria. Nel 2015 si è ottenuto una grande vittoria politica: lo stato ha riconosciuto la disastrosa situazione nella quale centinaia di uomini e di donne erano costretti a vivere ed ha pensato di muovere qualcosa. È stato aperto il centro “Jules Ferry”, il quale offre una colazione, un pranzo, una presa della corrente per poter ricaricare il cellulare, toilettes e delle docce.
Ovviemente i migranti all’interno del campo di Calais non sono lì per rimanervici, il loro obiettivo è la città di Dover. Il loro mezzo di trasporto attraverso il quale raggiungerla è il camion. In media le persone rimangono nei campi per un massimo di 6/7 mesi, poi riescono (non si sa in quale condizione) a raggiungere l’altra costa della Manica.
Claire, segretaria dell’associazione Salam.



Non si fermano mai, sono in continuo movimento. Il loro obiettivo è l’Inghilterra e il loro motto è “Tomorrow England”.


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Chi Siamo. Bruxelles. Tomorrow England.

Oggi siamo partiti.   Prima di raccontare del nostro viaggio, è meglio raccontare chi siamo noi. Siamo un gruppo molt...





Da oggi, ho il piacere di ospitare il reportage di attivisti per i diritti dei migranti che partiranno da Bergamo alla volta di Calais e della Grand Synthé per capire e testimoniare la situazioni dei due campi nel cuore d'Europa, ma soprattutto per incontrare la speranza e la voglia di libertà delle tante donne, dei tanti minori e uomini desiderosi di raggiungere il loro sogno. Sul blog verrà pubblicato giornalmente il "diario di viaggio".
Leonardo Cavaliere




Domani partiamo per Calais e la Grand Synthé perché siamo in un momento storico che non ci permette di guardare oltre, di far finta di niente. Andiamo per incontrare persone che vivono con la speranza di raggiungere Dover, l’Inghilterra, nonostante siano fermi in condizioni davvero difficili da mesi, alcuni anche da anni. Andiamo per conoscere quella rete di servizi che ruotano attorno a queste persone costrette a vivere in una tenda.


Partiamo perché siamo un gruppo di adulti e giovani (siamo di Bergamo) che da diverso tempo si sta informando e sta cercando di capire le situazioni che migliaia di migranti e profughi stanno vivendo. Siamo andati a Lampedusa, per ascoltare i racconti degli abitanti di quell’isola, la porta d’Europa, capaci da soli di accogliere centinaia di migranti; siamo andati a Idomeni, per conoscere gli uomini, le donne e i bambini bloccati sul confine greco.


Anche nel nostro territorio abbiamo cercato di “aprire i nostri confini”: l’amministrazione comunale, insieme con la Caritas delle parrocchie, ha deciso di ospitare 5 ragazzi profughi (4 del Gambia e 1 del Senegal). È molto bello vedere come la comunità si sta muovendo: anche solo un invito a pranzo è diventato un enorme gesto di solidarietà. Sono diversi, ma sempre pochi, i comuni bergamaschi che si stanno mobilitando per poter ospitare profughi nel proprio paese.


Prima di giungere a Calais, ci fermeremo al Parlamento Europeo a Bruxelles, per incontrare l’On. Barbara Spinelli molto attenta al tema dei migranti. Arrivati nella città francese, incontreremo una serie di associazioni che ci daranno una mano a capire la situazione attuale, come Medici Senza Frontiere, le municipalità, l’associazione Salam e Secours Catholique, ma soprattutto i volti e le storie di coloro che lì attendono con speranza di portare a termine il loro progetto migratorio.



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E domani si parte.

Da oggi, ho il piacere di ospitare il reportage di attivisti per i diritti dei migranti che partiranno da Bergamo alla volta ...
Ho pensato questo articolo volendo fare una raccolta delle 10 migliori foto, poi delle 25, delle 50 e delle 100, delle non so neanche quante sono ora, che potessero raccontare per immagini la rotta dei balcani. La cernita delle foto per raccontare una così immane tragedia umana non è cosa facile. Ho guardato su internet fino alle due di notte le immagini di quei migranti, bambini, donne, uomini; siriani, africani, afghani e iracheni, che per la voglia di vita sono costretti a fuggire dal loro paese natio e di come la vecchia Europa persa nel proprio egoismo li "accoglie". Più scorrevo e caricavo immagini e più un senso di rabbia cresceva. Avrei voluto essere sul confine macedone, a Idomeni, insieme a quelle migliaia di profughi per sfondare quell’assurdo muro di disumanità.

TUTTE LE FOTO SONO ALLA FINE DEL TESTO

Abbiamo militarizziamo le frontiere. Abbiamo pensato che per risolvere la crisi ci fosse bisogno della Nato, come se fossimo in guerra. Abbiamo bloccato e blocchiamo i rifugiati, per fare cosa? Per riportarli dove? Indietro da dove scappano?
Per riprendere le parole di Varoufakis "L’unica cosa da fare è lasciarli entrare. Tutti. Quando qualcuno bussa alla vostra porta, nel bel mezzo della notte, qualcuno a cui hanno sparato, che è bagnato, stanco, ha fame, ha dei bambini, non è possibile fare il calcolo costo-benefici se aprire o meno quella porta.Quella porta si apre e basta! È il nostro dovere, insieme a quello delle Nazioni unite. L’Europa è abbastanza grande e abbastanza ricca per farli entrare. Poi, ci preoccuperemo di come fare. Ma prima li facciamo entrare, gli diamo da vestire, da mangiare, ci assicuriamo che non muoiano, che non anneghino e poi troveremo un modo per integrarli".

TUTTE LE FOTO SONO ALLA FINE DEL TESTO

Da "La speranza di una nuova vita", l'immagine del fotografo australiano Warren Richardson che ha vinto l'ambito premio del World Press Photo of the Year 2015."Where the children sleep", il titolo della raccolta fotografica del pluripremiato artista Magnus Wennman. L'artista svedese, vincitore di due World Press Photo Awards e quattro volte vincitore dello Swedish Photographer of the Year Award che ha fotografato i rifugiati negli innumerevoli campi profughi durante il loro viaggio attraverso l'Europa. Nelle cui foto si colgono le emozioni e i sentimenti di paura e angoscia che tormentano i piccoli migranti quando giunge l’ora della nanna. Le foto di Georgi Licovski, che con il suo reportage dal confine greco-macedone ha vinto il concorso Unicef Foto dell'anno. Le foto di Francesco Malavolta, dell'Ansa, de La Presse e di chissà quanti altri fotografi. Partendo dalla drammatica immagine del piccolo Aylan Kurdi, il bambino curdo-siriano di 3 anni annegato a inizio settembre con la madre e il fratellino di 5 anni, diventato simbolo della tragedia dei migranti. 


Tutta la vita. E per sempre dalla parte di chi i muri li forza e li sfonda.


Leonardo Cavaliere

50 e più foto che raccontano la storia della rotta balcanica

Ho pensato questo articolo volendo fare una raccolta delle 10 migliori foto, poi delle 25, delle 50 e delle 100, delle non so neanche quante...
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